Capitolo 3
sabato, agosto 15th, 2009
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Le stelle brillano tanto vicine che so di poterle catturare. Mi alzo in punta di piedi sulla sabbia e strappo una stella dal firmamento. Stringo la sfera di fuoco tra le dita: la luce è abbagliante; fiamme bianche mi lambiscono il braccio. Lascio cadere l’astro: si spegne sfrigolando a contatto con il terreno.
Salto e sfioro con i polpastrelli una seconda stella, piccola e rossa. La stella, infastidita, si ritrae dietro la volta celeste.
Così sono nati due buchi neri, sopra di me. Dev’essere quello lo scopo del gioco. Mi impegno a spaventare le stelle. Quelle con i riflessi più lenti le acchiappo e le lancio tra la sabbia. Presto il cielo diviene una distesa oscura. Allora mi accorgo che all’orizzonte sorge una casetta, con le finestre illuminate.
Raggiungere la casetta non è facile. La spiaggia è ormai ricoperta dai cadaveri delle stelle, e devo stare attenta a dove metto i piedi. Inoltre se cammino in linea retta verso la piccola abitazione me ne allontano, per avvicinarmi devo compiere un percorso a spirale.
Arranco a piedi nudi nella sabbia grigia. La casetta diviene più nitida a ogni passo: è una casetta minuscola, una casa delle bambole. Tegole color mattone tappezzano il tetto spiovente, i muri sono dipinti di rosa, tendine ornate da fiorellini velano le finestre.
Quando raggiungo la porticina, mi rendo conto di essermi rimpicciolita, di non essere più alta di un soldatino. La porticina è socchiusa, intagliata in un riquadro di luce gialla.
«Entra, entra. Ti aspettavo» mi chiama una voce.
Spingo il battente e mi intrufolo nel pertugio. La casetta è composta da un’unica stanza. Il proprietario dev’essersi trasferito da poco, perché lungo le pareti sono ancora accatastati scatoloni pieni di piatti e bicchieri, e altri scatoloni con le pentole, e sedie imballate, una credenza smontata, il rotolo di una tapparella.
Al centro del locale mi aspetta in piedi una figura incappucciata, immobile. Una palandrana nera copre lo sconosciuto, il viso è nascosto dalle ombre del copricapo.
«Avvicinati.»
Accenno di sì con la testa. Mi fermo davanti allo sconosciuto. E lui, con un movimento fulmineo, mi afferra il polso. Dita invisibili mi pizzicano le braccia, risalgono il collo, strisciano sulla guancia, mi entrano nella testa, passando per l’orbita degli occhi. Con uno strattone mi libero dalla presa.
Lo sconosciuto abbassa il cappuccio. Una cascata di capelli dorati gli ricade sulle spalle. Lo sconosciuto alza il viso: è una ragazza.
«Ciao, Silvia!» La ragazza piega di lato il capo, socchiude i grandi occhi verdi. «Io sono pronta, ma ho bisogno di ordini scritti.»
«Ordini?»
«Mi hai detto tu di rifugiarmi qui e aspettare nuovi ordini.»
Ho il sospetto di aver combinato qualche stupidata di troppo alla festa di Angela. Però non ricordo accordi con misteriose ragazze dagli occhi verdi.
«Non so di cosa stai parlando.»
«Ma se non hai ordini…» La ragazza torna a coprirsi la testa con il cappuccio. Non muove più un muscolo, è pietrificata.
Le giro intorno. Le tocco una spalla con l’indice. Do una leggera spinta: la ragazza ha la rigidità di un manichino. Magari ha solo il sonno molto profondo.
Esco dalla casetta. Acqua limacciosa mi arriva all’altezza delle ginocchia. I piedi affondano in uno strato di melma gelida. Alghe viscide mi carezzano le gambe. Enormi libellule mi ronzano attorno. Mentre discutevo con la ragazza incappucciata, la spiaggia si è tramutata in uno stagno.
Le stelle galleggiano alla deriva, tra le ninfee. Su una nana bianca è accovacciato un rospo. Il rospo ha un cartello legato al collo con una cordicella. Mi faccio strada nel fango, mi chino verso il ranocchio e leggo il messaggio: “BACIAMI. SONO UN PRINCIPE.”
La pelle del rospo è color verde muffa, chiazzata da macchie giallastre, degne di un malato di cirrosi. La testa bitorzoluta luccica come se fosse ricoperta di muco. Gli occhi sembrano quelli di un pesce morto. È una creatura disgustosa. Però è solo un sogno. Accosto le labbra al muso dell’anfibio.
Premo appena. È una sensazione nauseante. È leccare la carne putrida di un cane in decomposizione. Mi pulisco la bocca più volte con il dorso della mano. Sto per rigettare.
Il rospo si gonfia. I tessuti si lacerano, rivoli di sangue nero e pus colano nello stagno. Spuntano gambe, e dita nascono dalle gambe, un occhio si spalanca sulla coscia, un braccio cresce dal ginocchio, ossa si distendono a ventaglio dal gomito, unghie affilate rompono vene e muscoli della spalla.
«Che schifezza» mormoro.
Dietro il rospo, l’intrico di carne e organi freme e si dirama, si espande, assume la forma di un uovo. Le pareti dell’uovo si sgretolano, qualcosa di peloso striscia verso l’esterno.
Colpisco con una manata il mostro peloso, facendolo volare giù dal letto.
La camera rotea intorno a me, come se fosse il cestello di una lavatrice in funzione. Se la stanza non si ferma subito, vomito la cena. Artiglio il lenzuolo, chiudo gli occhi. Rallento il respiro.
Conto fino a venti. Riapro con cautela gli occhi: la camera non balla più, anche se i muri ondeggiano ancora. Un libro cade dal ripiano più alto della libreria.
Il mostro peloso risale sul materasso e si accuccia dietro il cuscino. Solleva il capo e mi spia con occhietti carbone da sopra il guanciale. Il muso è contratto in una smorfia di disapprovazione.
Non è un mostro, è il Conte.
«Ben svegliata. Esuberante fin dal mattino» dice il coniglietto. «Meglio così. Su, forza, alzati.»
Mi drizzo a sedere, la schiena contro la parete. Sono immersa in un bagno di sudore, la testa mi scoppia, ho la nausea. E ho sete – il caldo è asfissiante. Mi sento a pezzi proprio come ieri mattina, ma non sono reduce da una festa. Ci mancavano giusto gli incubi nel cuore della notte.
Dalla finestra aperta si insinua una luce ovattata. È una luce troppo smorta per dare nitidezza ai dettagli, è più simile a un drappo grigio, steso a coprire il mondo.
«Ma che ore sono?» biascico. La lingua è attaccata al palato e ho difficoltà a parlare.
«Quasi le sei.»
«Le sei? Le sei del mattino?» Per forza sono intontita. «Io non posso alzarmi prima delle dieci, me lo vieta la mia religione.»
Il Conte zampetta verso di me. «Alzati! E non farmelo ripetere.»
«Dopo, adesso non–» colgo con la coda dell’occhio il coniglietto che si infila sotto il lenzuolo. Il pelo mi solletica i piedi. Una fitta alla caviglia.
«Ahia!»
Scatto in piedi, ricado, scalcio. Il Conte è abbrancato al mio piede. I dentoni hanno strappato il pigiama, scompaiono nel rosa della carne. Un filo di sangue disegna il profilo del tallone.
«Mi… mi hai morso!» Lacrime mi riempiono gli occhi. «Mi fa male!»
Il coniglietto molla la presa, arretra con un saltello. «Posso farti ben più male. Alzati! Subito!»
Stringo la caviglia martoriata con entrambe le mani. Il sangue scorre tra le dita, tinge di rosso il lenzuolo. Non sono mai stata morsa in vita mia, è un’esperienza atroce! «Che male, che male, che male!»
Le lacrime mi rigano le guance. «Non voglio diventare un coniglio mannaro!»
«Non lo diventerai, non te lo meriti» risponde il Conte.
Il coniglietto torna di fronte a me. Mi annusa, con la stessa malizia di un leone che sceglie la sua preda tra le gazzelle più deboli del branco. Indietreggio. Il Conte accenna un nuovo attacco. Sgattaiolo verso il fondo del letto, sotto i palmi non trovo più il materasso: rotolo giù e picchio il sedere per terra.
Il coniglietto mi scruta dall’alto in basso. Si infila in bocca una sigaretta. «Adesso.» Accende la sigaretta. «Adesso sbrigati a lavarti e vestirti. Ti voglio pronta in un quarto d’ora, capito?»
Tremo. Per il dolore lancinante alla caviglia, per la paura e per la rabbia. Giuro che se mi sveglia un’altra volta così lo vendo a un circo! Ma non ho il coraggio di pensarlo a voce troppo alta.
* * *
Non riesco a smettere di sbadigliare. Mi stiracchio. Starnutisco. Il Conte mi ha trascinata fuori di casa senza lasciarmi neppure il tempo per asciugare i capelli dopo la doccia. Mi sono risparmiata l’umiliazione di guardarmi allo specchio prima di uscire, ma so bene di avere un aspetto miserabile.
Se incontro il signor Belardi minimo mi scambia per una clandestina appena scampata a un naufragio. Per fortuna alle sei del mattino non c’è in giro anima viva.
Alzo il viso verso il Sole. Socchiudo gli occhi, mi proteggo con il dorso della mano. Il cielo è sgombro, neanche l’ombra di una nube. Si prospetta una giornata caldissima. Forse evito di buscarmi il raffreddore.
«Seguimi» mi ordina il Conte, saltellando avanti a me.
Ci fermiamo all’ingresso dei giardinetti pubblici di via Torino, una traversa di viale Gozzini. I giardinetti, un ovale di verde ampio quanto un campo da calcio, sono deserti. Panchine di ferro, scolorite e arrugginite, si alternano a lampioni spenti. L’edicola in fondo alla via è chiusa; sulle serrande qualcuno ha tracciato graffiti inneggianti all’anarchia. È chiuso anche il chiosco delle bibite. Una brezza leggera solleva i lembi del telone che copre una catasta di tavolini e seggiole pieghevoli.
Tiro un calcio a una lattina di birra vuota. È così presto che non sono ancora neanche passati gli spazzini a ripulire i vialetti di ghiaia. «Ho sonno. Mi fa male la testa. Sono stanca.»
«Di fiato ne hai, e questo è l’importante.»
«Non ho fatto colazione.»
«La farai dopo. Ora comincia a correre.» Il coniglietto indica con la zampetta la pista in terra battuta che segue il perimetro dei giardinetti.
«Correre?»
«Correre. Compiere Magie coscienti richiede un enorme sforzo fisico. Se non sei in perfetta forma, rischi di non essere in grado di sopportare la fatica. Perciò devi allenarti, almeno finché non sarai abbastanza abile da manipolare il tuo stesso corpo con la Magia.»
«Non ho voglia.»
Il Conte mi balza tra i piedi. Annusa il cerotto che copre la caviglia ferita, sfodera i dentoni.
Schizzo in avanti e comincio a correre.
Dopo il secondo giro intorno ai giardinetti sono debole sulle ginocchia, il respiro mi esce a rantoli, il sudore mi vela gli occhi. La fontanella mi appare come un miraggio. Mi trascino verso l’apparizione, mi aggrappo al becco di un’aquila di ferro, dal quale sgorga un filo d’acqua. Bevo avidamente, ficco la testa sotto il rivolo di acqua fresca.
«Non ti ho detto di fermarti» mi rimprovera il Conte.
«Non…» Ho il fiato corto, parlare è un’impresa. «Non… non ce la faccio. Non ce la faccio.»
Il coniglietto scala la fontanella con due agili balzi. «Sei in condizioni pietose. Sei patetica. Sei vergognosa.»
«Gra… grazie.»
Il Conte si accende una sigaretta. «Non mi avevi accennato al fatto che frequenti una piscina? Questo è il risultato?»
Sono una persona di buon senso: frequento la piscina perché mamma ha lo sconto al bar e per guardare i ragazzi, non per nuotare. E poi lo sanno tutti che il cloro è velenoso.
«Avanti, riprendi a correre. Fai un altro giro, io ti aspetto qui. Vedi di tornare prima che abbia finito la sigaretta, oppure saranno guai.»
Fisso il coniglietto, inebetita.
«Muoviti!» sbraita lui.
Strascico i piedi, ma riprendo a correre. Devo tenere una mano premuta contro il fianco, oppure il dolore alle reni mi uccide. Lo vendo a un circo, giuro lo vendo a un circo!
Il sentiero si restringe, ostacolato dai tronchi di due platani. Rallento il passo. Lancio un’occhiata alle spalle: fontanella e coniglietto sono spariti, nascosti dalle fronde.
Se io non posso vedere lui, lui non può vedere me. Per sicurezza metto tra me e il Conte l’albero di destra. Mi siedo all’ombra delle foglie, le gambe distese sull’erba, la schiena posata contro il tronco. Il sollievo è tale che mi avvolge un profumo delizioso: la torta paradiso della nonna, appena sfornata.
Il piano è tanto semplice quanto efficace: mi riposo un paio di minuti, poi sguscio dietro la fontanella e faccio credere al coniglietto di aver completato il giro. Sorrido tra me e me. La luce calda del Sole, filtrata dall’intrico dei rami, mi carezza il viso.
La torta paradiso inizia a puzzare di tabacco.
«Comincio a sospettare che tu sia sul serio stupida.»
Spalanco gli occhi. Il Conte è davanti a me, la sigaretta pendula tra le labbra. «E adesso sono costretto a morderti.»
«No! No, no, no, ti prego! Scusa, scusa!»
«Nessuno ti ha insegnato la prima regola? Non si chiede mai scusa. Perché mai ci si deve trovare nella posizione di deludere i propri maestri.»
Il coniglietto butta la cicca. Volto la testa in una direzione, nell’altra. Non c’è nessuno a cui chiedere aiuto. E sono troppo stanca per alzarmi. Non ho vie di fuga.
Il Conte mi azzanna il polpaccio.
Il dolore risale al cervello. Diviene rabbia. Il mondo implode.
Erba, alberi, panchine, ghiaia, i palazzi lontani: ogni cosa si disgrega in una pioggia di coriandoli. I coriandoli si sfaldano in frammenti più piccoli. I frammenti si decompongono in pezzetti ancora più minuscoli. I colori sbiadiscono, il paesaggio si sbriciola in un lago di sabbia nera.
L’aria è scomparsa e con lei il Sole e il cielo. Non esiste nient’altro tranne la sconfinata distesa di sabbia nera. Non posso più respirare, ma non provo fastidio. Quanti minuti può rimanere senza ossigeno il cervello? Inutile contare il tempo, il tempo stesso è sabbia.
L’onda attraversa la realtà con rapidità infinita. Dietro di lei il mondo rinasce: colori, suoni, edifici, l’azzurro del cielo, una panchina, l’aria. Ma quando l’onda sparisce all’orizzonte, ogni cosa si ritrasforma in sabbia. Onda, sabbia. Onda, sabbia. Onda, sabbia. C’è un ritmo nella distruzione e nella creazione. Il battito del mio cuore.
Il fantasma sfocato della me stessa di ieri entra in un bar. Posa dieci euro sul bancone. Il suo cuore e il mio cuore aumentano il ritmo dei battiti. La frequenza dell’onda cresce in proporzione. Tornano le sensazioni, torna il dolore alla gamba.
Abbasso lo sguardo. Il Conte mi si è attaccato addosso come una sanguisuga. Ho visto in tanti film qual è il modo giusto per liberarmene. Quando il coniglietto diventa sabbia, prima che l’onda successiva lo ricostruisca, dipingo con il pensiero alte fiamme sul pelo cinerino.
L’onda si infrange sul Conte. I capillari dei miei occhi esplodono, il sangue invade i polmoni, il cuore si ferma.
Sono anch’io sabbia.
Un tocco umido alla guancia. Incontro gli occhietti carbone del Conte. Il coniglietto mi è salito in spalla e mi sta leccando. Preme il nasino contro il mio. «Ti ho detto che compiere Magie coscienti è faticoso» sussurra. «Potevi farti male sul serio.»
«Io…» Ho i muscoli rigidi, le mani strette a pugno. Distendo le dita, osservo i palmi sudati. Non ho desiderato un gelato, ho desiderato incenerire il Conte. Ho immaginato le fiamme avvolgerlo e non ho provato alcun rimorso. Volevo uccidere un coniglietto! Be’, una carogna di coniglietto, ma pur sempre un coniglietto. «Io… mi dispiace.»
Il Conte mi salta in grembo. «Non ti preoccupare, non è così semplice togliere la vita a qualcuno con la Magia. E sono orgoglioso che tu ci abbia provato, temevo di aver a che fare con una smidollata incapace.»
«Mi dispiace lo stesso.»
«Va bene, va bene, non fare la lagna.» Il Conte sfila dalla tasca dei miei pantaloncini il fazzoletto. Mi fascia la gamba, stringe il nodo tirando con i dentoni. «Alzati, dai. Andiamo a fare colazione, sarai affamata.»
Il chiosco ha appena aperto, ci sediamo ai tavolini. Il Conte aveva ragione: ho i crampi allo stomaco, come se non mangiassi da una settimana.
Ordino una brioche all’albicocca e una limonata. Sbrano la brioche in tre bocconi, e ne chiedo subito un’altra. Poi prendo due girelle, due bomboloni, una terza brioche, una coppetta di gelato preconfezionato alla stracciatella e un sacchetto di caramelle gommose ai frutti tropicali. Il coniglietto si accontenta di un bicchierone di latte.
«Cosa mi è successo?» gli chiedo.
«Hai cercato di usare la Magia. In pochi secondi è probabile che il tuo cervello abbia consumato più energie che non durante l’intero anno scolastico. Per questo devi essere in perfetta forma. Poteva venirti un infarto.»
Annuisco. Mi caccio in bocca una caramella al mango. Succhiare le caramelle mi aiuta a pensare. Il coniglietto parlante e questa fame assurda sono fatti incontestabili, ma la soluzione più semplice è che mi sia sentita male per ragioni naturali. Mi sono messa a correre la mattina presto, sotto il Sole, dopo essere stata morsa da un animale selvatico. Chiunque avrebbe avuto un mancamento.
Bevo l’ultimo sorso di limonata e mi rilasso contro lo schienale della seggiola. I giardinetti si stanno popolando: due mamme che spingono carrozzine e chiacchierano fra loro, una coppia di pensionati, un ciclista, un signore che porta a spasso il cane. Il titolare del chiosco ha acceso la televisione, dal baracchino arrivano le note della sigla di un cartone animato. Sailormoon, se non sbaglio.
Sovrappongo al paesaggio l’immagine del lago di sabbia nera. Hai cercato di usare la Magia. Che stupidaggine. Porto una mano alla bocca, per coprire uno sbadiglio. «Possiamo tornare a casa? Io non mi reggo in piedi.»
«No. Non abbiamo tempo da perdere, guarda qui.» Il Conte mi porge un foglio A4 spiegazzato. Lo distendo sul tavolino. Il foglio è coperto da macchioline nere, tonde; alcune sono poco più di un puntino, altre hanno il diametro di una moneta da due euro. Ci sono macchie slabbrate e altre dal contorno netto. Le macchie non sono distribuite in maniera uniforme: verso il centro del foglio sono raggruppate, ai bordi sono isolate.
«L’ho stampato questa notte con il portatile di tua madre» continua il coniglietto.
«Sei entrato in camera di mamma?» Se mamma avesse colto il Conte in flagrante lo avrebbe fatto arrosto, seduta stante, magia o non magia!
«Tu non hai una stampante, comunque non importa. Dimmi cosa vedi.»
Squadro il foglio da cima a fondo. Non ci vedo niente, a parte le macchie. Giro il foglio in verticale. In diagonale. Lo capovolgo. Distinguo solo macchie nere. Macchie nere… ma certo! Dev’essere quel test dal nome strano, quello dove bisogna dimostrarsi intelligenti individuando le forme nascoste nelle macchie.
«Vedo… uhm… dunque, qui delle farfalle, intorno ai fiori.» Sposto il dito a indicare più in basso. «Queste sono le ruote di un treno, di quelli vecchi, a vapore. E questo è il vapore.»
Il Conte sospira. «Non è un test di Rorschach, razza di svampita. È un’elaborazione NASA di immagini appena giunte dal telescopio Hubble. Gli astronomi impiegheranno mesi per scoprire la vera natura di queste immagini e quando capiranno sarà troppo tardi. Perché qui», il coniglietto muove una zampetta per racchiudere in un ovale le ruote del presunto treno, «non parliamo di stelle, pianeti, comete o asteroidi. Queste sono tracce di propulsione di motori sub-luce. Una flotta di navi da guerra è appena uscita dall’iperspazio e converge verso il Sistema Solare.»
Faccio scorrere il polpastrello lungo il profilo del bicchiere, per raccogliere le gocce di limonata rimaste appiccicate al bordo. Infilo il dito in bocca. «È grave?»
«La flotta punta a raggiungere la Terra. Per ucciderti.»
«Oh.» Sì, certo. Come no.
Dev’essere la solitudine. Dubito esistano molti altri coniglietti parlanti, il Conte deve sentirsi sempre solo. Isolato. Così per attirare l’attenzione si inventa queste storie strampalate. Si comporta allo stesso modo di un bambino piccolo.
«Tu non ti rendi conto» riprende lui. «Quando un Mago modifica la realtà, è come se lanciasse un sasso in uno stagno, le onde si propagano fino alle sponde. Ma le onde di una Magia non sono limitate dalla velocità della luce. Gli effetti si propagano in maniera istantanea. Nell’attimo in cui io sono apparso, le creature dell’abisso lo hanno saputo. E hanno ordinato ai loro servi di ucciderti. Non abbiamo molto tempo, secondo i miei calcoli l’avanguardia della flotta raggiungerà la Terra in dieci, dodici settimane.»
Riprendo in mano il foglio. Più lo studio, più mi appare chiaro che la risposta “treno a vapore + farfalle” è quella giusta. Però il Conte ha appena parlato con tale convinzione… Non era neanche un tono serio in maniera forzata, di chi stia tendendo la trappola di uno scherzo. Fisso il coniglietto e lui si affretta a pulirsi un baffo di latte. Sei un coniglietto paranoico o mi stai dicendo la verità?
«Devo discuterne con il mio ragazzo. Lui di queste cose se ne intende.»
«No. Non hai più tempo da buttare con i ragazzi o sciocchezze del genere. Meglio se te lo scordi fin da subito.»
«Lasciare Roberto? Non ci penso neppure. Anzi, adesso vado in Università a trovarlo.»
Il Conte mi guarda in cagnesco. «No.»
«Sì.»
«No.»
Mi alzo di scatto, rovesciando la seggiola. «E invece sì!»
Il brontolare in sottofondo della televisione si spegne.
È alle mie spalle e non posso vederlo, ma so che il tizio del chiosco si è girato verso di me e mi sta osservando. Afferro per la collottola il Conte. Con passo deciso mi dirigo al baracchino.
«Non che siano affari tuoi, ma lavoro in teatro.» Sbatto sul bancone il portafoglio. Le spille di Hello Kitty che ci ho attaccato sopra tintinnano. «Quanto ti devo?»
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