Capitolo 8
domenica, ottobre 11th, 2009
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Appena scendiamo in strada riprende a piovere. Sollevo il bavero del cappotto, una palandrana nera lunga fino ai piedi. L’ho trovato nell’armadio, ripiegato in un angolo; il Conte non mi ha voluto spiegare cosa ci facesse lì.
Una bicicletta è rovesciata sul marciapiede, davanti al portone. La ruota dietro gira a vuoto, silenziosa. Dalla borsa legata al fianco della bicicletta sono scivolati fuori dépliant e buste. La pioggia riduce la carta in poltiglia grigia. I sacchi della spazzatura sono ancora lì, ammucchiati alla base del lampione.
Il vento fa vibrare i cavi elettrici per i filobus. Ma non passano mezzi pubblici, né macchine. Le auto parcheggiate sono annerite, mancano dei pneumatici, hanno il parabrezza sfasciato, puzzano di gomma bruciata. Le serrande dei negozi sono abbassate. Non c’è in giro anima viva.
Nubi scure soffocano il cielo, tanto basse da nascondere gli ultimi piani dei palazzi più alti. Sono da poco passate le nove di mattina, ma è già sera.
«La città sembra abbandonata» mormoro. «Io speravo di trovare un posticino aperto per fare colazione.»
Il coniglietto spunta dalle falde del cappotto. «Là.» Indica con la zampetta alla mia destra. L’insegna luminosa di un bar si distingue tra la nebbia.
«Ma sbrighiamoci.»
Nessuno è seduto ai pochi tavolini, e nessuno è alla cassa.
Al termine del bancone, un’insalatiera di vetro capovolta protegge una mezza torta già tagliata. Cioccolato e pere.
«C’è qualcuno?»
Conto fino a dieci.
Se il proprietario del bar non vuole guadagnare, sono problemi suoi.
Prendo una fetta. Do un morso. «Vecchia di giorni.» Ma ho dimenticato l’ultima volta che ho messo qualcosa sotto i denti: mangio la porzione in tre bocconi, senza badare alla pera acida e alla pasta frolla stopposa. Divoro una seconda fetta e mi infilo in tasca quel che rimane della torta.
Il Conte balza giù da una mensola. Tiene tra le zampette un accendino nuovo, di acciaio lucido. «Andiamo.»
Le ciabatte che il coniglietto ha fregato all’ospedale sono fradice. Brividi di freddo salgono dai piedi a ogni passo. Mi stringo di più nel cappotto; continuo a tremare. Mi sta venendo un accidente.
«Manca ancora molto?»
«Superata l’edicola ci siamo quasi.»
L’edicola è chiusa, la saracinesca bloccata da un lucchetto grosso quanto un pugno. Pacchi di quotidiani, tenuti assieme con lo spago, sono accatastati contro la serranda. Il giornale in cima alla pila titola a tutta pagina: “LA FINE DEL MONDO?”. Più in basso: “Oggi chiuse le scuole. I sindacati confermano lo sciopero generale. Appello alla calma del Presidente della Repubblica. L’Arcivescovo della Città celebrerà una messa speciale nella cattedrale di Santa Cristina.”
Il cielo tuona. La pioggia cresce di intensità. Diluvia.
«Diamoci una mossa» dice il coniglietto. Scuote la testolina; l’acqua gli ha appiccicato le orecchie al musino. Sia io sia il Conte siamo inzuppati.
Se sopravvivo alla fine del mondo, la polmonite non me la leva nessuno.
La saracinesca del ferramenta è abbassata a metà. Mi chino e provo lo stesso a girare la maniglia della porta. Spingo il battente e trilla un campanello.
«Siamo chiusi!» grida una voce.
Mi infilo dentro. Le luci sono spente. Alti scaffali, pieni di arnesi appuntiti e taglienti, incombono intorno a me. Mi faccio strada nel labirinto. Le pareti traboccano di tronchesi, cacciavite, cesoie, coltelli, spatole, roba inutile.
Un brusio mi guida verso il fondo del negozio.
Il televisore, un quindici pollici, è in cima a una piramide di fusti di vernice. L’apparecchio borbotta in latino; le immagini sono un susseguirsi di gente in ginocchio, affreschi di santi, un tizio che suona l’organo.
«Siamo chiusi.»
Mi volto in direzione della voce. Un signore in piedi tra le ombre, dietro il bancone. Tiene le braccia conserte e fissa lo schermo. Sulle lenti degli occhiali si riflettono due riquadri azzurri.
Mi metto tra lui e il televisore. «È un’emergenza!»
«Senza dubbio. Ma lo sapevo già.»
«No, non la fine del mondo. Cioè, anche. Oh, insomma.» Frugo nelle tasche e offro al tipo un foglietto stropicciato. Il Conte ci ha scarabocchiato sopra marca e modello del trapano che gli serve. «La prego, può cercarmelo? E ho bisogno anche di una punta a corona da quindici millimetri.»
Il tipo sbuffa. Accende una lampada a muro e sparisce nel retrobottega. Torna e sbatte sul bancone una scatola di metallo con la maniglia, simile a una ventiquattrore. Una fascia di cartoncino avvolge la confezione. Sulla fascia è disegnato un falegname che perfora con il trapano un’asse di compensato. Trucioli schizzano via dal buco nel legno e formano parole: dodici velocità, grande potenza, prolunga cinque metri, otto punte omaggio, batterie incluse.
Cosa potrebbe desiderare di più un coniglietto pazzo?
Il tipo si china; rovista sotto il bancone. Trova la punta a corona, la infila in una busta e la posa sulla ventiquattrore. Non ritrae la mano.
Be’, cosa vuole adesso? Non ho tempo da buttare!
Sbottono il cappotto e prendo il portafoglio. Lo apro a mostrare le banconote. «Non si preoccupi, posso pagare.»
«A cosa ti serve il trapano, ragazzina?»
A parte che io non ne ho idea, saranno pure affari miei, no? Ma chissà che impressione faccio con addosso questo cappotto da uomo troppo largo, senza scarpe e bagnata fradicia dalla testa ai piedi. Starà pensando che sono una squilibrata. Non io, furbone, è il coniglietto quello matto!
Dalla televisione giunge un coro. Angeli che cantano.
Va bene, chi se ne importa.
«Devo salvare il mondo.»
Lui preme l’indice contro l’attaccatura degli occhiali, li spinge più su sul naso. Solleva l’altra mano.
«Buona fortuna.»
* * *
«No, non se ne parla neanche!» urlo.
«Un attimo» risponde il coniglietto, senza alzare gli occhietti dalla carcassa del palmare. Appena tornati a casa, il Conte ha sbudellato il piccolo computer. Dal cadavere ha recuperato una scheda verde coperta da componenti elettronici, poi si è messo a saldare fili qui e là.
Intanto mi ha spiegato come intende usare il trapano.
Si è bevuto il cervello se crede che accetti una cosa del genere!
«Un attimo, un’ora, un giorno, non cambia niente! È un’idea cretina e basta!»
Dalla punta incandescente del microsaldatore sale uno sbuffo di fumo. Il Conte tiene lo strumento a contatto con la scheda per meno di un secondo, quindi passa a saldare pochi millimetri più in là. «E anche questo è a posto» borbotta. Posa il saldatore sopra una tazzina a testa in giù, attento a evitare che la punta sfiori il legno del tavolo. Picchietta contro il palmo di una zampetta un pacchetto di sigarette e ne sfila l’ultima rimasta. Se la mette in bocca.
«Non avrai sul serio intenzione di fare i capricci?» Accende la sigaretta.
«Nessun capriccio. Semplicemente tu un buco in testa non me lo fai. Fine della discussione.»
Il coniglietto inspira e soffia via un anello di fumo. «Silvia, forse non hai capito. Io sono troppo piccolo e debole per maneggiare il trapano, sarai tu a usarlo. Io mi occuperò dell’anestetico e di tagliare la pelle.»
Io dovrei maneggiare il trapano? Non si è bevuto il cervello, non l’ha mai avuto un cervello!
«Non. Se. Ne. Parla.»
«Sai cosa succederà tra poche ore?»
«Sì, sì, moriremo tutti. Ma voglio crepare tra poche ore, non fra dieci minuti!»
Il coniglietto depone la cicca accanto al microsaldatore. Si gira per fissarmi con i suoi occhietti carbone. «Tra poche ore moriranno i più fortunati. Quelli che saranno ammazzati dall’onda di calore delle esplosioni. Gli altri, gran parte della popolazione terrestre, moriranno nel giro dei due, tre giorni successivi, a causa delle radiazioni.»
«E allora?»
«Hai mai visto qualcuno morire in quella maniera? Io sì. Non è un bello spettacolo: vomito, diarrea, sanguinamento, disidratazione, delirio, coma, morte. Potrebbe capitare a te. O ai tuoi genitori. Magari a Elena. A Roberto?»
«Brutto coso peloso!» Zoppico verso il tavolo, strappo via un mattone dalla gamba più vicina. Lo soppeso. È abbastanza pesante da maciullare il cranio del maledetto coniglio.
Quello che avrei dovuto fare il primo giorno.
E magari se lo ammazzo spariscono tutti i miei problemi.
Scaglio il mattone. Il Conte balza di lato e schiva il colpo.
Il coniglietto riprende la sigaretta. «Non ho intenzione di pregarti. Devi decidere tu, Silvia. Se vuoi morire, se vuoi che le persone che ti sono più care muoiano, è una tua scelta.»
«Quali persone care? Quali? Non ho più persone care! Dove sono i miei genitori? Dov’è Roberto? Cos’è successo in questi tre mesi?»
Il Conte indica con la cicca il palmare sventrato. «Sottoponiti all’operazione e lo saprai.»
Lampi azzurri illuminano il riquadro della finestra. Il tuono che segue scuote le pareti. Frammenti di intonaco si staccano dal soffitto e mi cadono tra i capelli. La fiamma della lampada a gas si ripiega su se stessa. La notte di mezzogiorno invade la stanza.
«Io ho quasi finito» dice il coniglietto. «Tu intanto vai in bagno, lavati con lo shampoo che ho preso e tagliati i capelli. Devi rasarti bene intorno alla fronte.»
«Non hai sentito proprio niente di tutto quello che ti ho detto? Non lo faccio!»
Il coniglietto sospira. «Come sospettavo fin dall’inizio. Sei una vigliacca.»
«Non è vero!»
«No? Allora, cosa ti spaventa? Non sarà un’esperienza piacevole, ma è niente in confronto a quello che ci aspetta, se non interveniamo subito.»
Mi lascio cadere sulla seggiola bianca. Non mi sono tolta il cappotto e ho freddo lo stesso. Non riesco a tenere ferme le mani. Le premo contro le ginocchia, ma tremano.
«Ho paura» mormoro.
«È normale, ma devi superarla. Se starai attenta non c’è alcun rischio. Procederemo con calma.»
Lancio un’occhiata al trapano, posato sul tavolo. Il Conte ha verificato che funzionasse e ha già montato la punta a corona. Sull’impugnatura dell’apparecchio è appiccicato un adesivo giallo a forma di fulmine, a metà della saetta si legge: 35.000 giri al minuto!
Deglutisco.
«Non potrebbe aiutarmi Elena? Lei ha sangue freddo… qualche volta. La chiamo da una cabina, poi la faccio venire qui, le mostro che tu parli, le spieghia–»
«Silvia! Non c’è tempo! Potrebbe essere già troppo tardi.»
Chino il capo.
Quando mamma mi butta giù dal letto e mi costringe ad andare a scuola vorrei gridarle di lasciarmi in pace, che non ha nessun diritto di trattarmi così, o la prossima volta sarò io a prenderla a sberle. Quando mi obbliga a sedermi al tavolo della cucina per sorbirmi le sue stupide prediche, vorrei alzarmi di scatto e rovesciarle addosso il tavolo. Quando il prof di storia mi chiama per rispondere alle domande cretine su Napoleone vorrei solo sputargli in faccia. Quando Elena mi trascina in qualche casino vorrei urlarle che è una scema, che non siamo amiche, non lo siamo mai state! Vorrei proprio vedere che faccia farebbe!
Ma non ho il coraggio di fare niente del genere.
Ogni volta ingoio la rabbia e cerco di non pensarci. Esco, bevo, mi distraggo con un sacco di stupidaggini.
Sono una vigliacca.
E non voglio più esserlo.
«Non c’è altra soluzione?»
Il coniglietto fa cenno di no con la testolina. «Mi spiace.»
«Ho capito.»
* * *
Taglio una ciocca di capelli. La butto nel lavandino, pieno a metà di acqua gelida; credo si sia intasato lo scarico, non che me ne freghi niente. Lo specchio davanti a me è crepato, velato dalla polvere, unto lungo i bordi. La mia faccia non è ridotta meglio.
Sbatto le forbici nell’acqua. Gocce fredde mi bagnano le braccia.
Dannazione!
Sto per morire. E ho sprecato la mia vita.
Non mi sono mai preoccupata di niente. Non ho mai fatto progetti oltre la settimana successiva. Me ne sono sempre fregata del futuro, di quello che avrei combinato “da grande”. Adesso il mio futuro è un buco in testa. Se mi va bene.
La festa da Angela.
L’ultima volta che mi sono trovata di fronte a uno specchio è stato prima di uscire per andare alla festa. Sarei dovuta rimanere a casa. È tutta colpa di Angela, ecco, solo colpa sua!
«Sei pronta?» mi chiama il coniglietto.
«Un minuto, un minuto.»
Riprendo le forbici e strappo via un’altra ciocca.
Il Conte mi ha ordinato di togliere il materasso da sotto la finestra, al suo posto ho piazzato la seggiola bianca. Fuori continua a piovere, dietro il vetro il mondo è sommerso dall’acqua. Le luci dei palazzi vicini si intravedono appena.
«Avanti, metti la lampada sul comodino, qui, che ti illumini la testa.»
Obbedisco. «Va bene, così?»
Il coniglietto annuisce. Rigira tra le zampette un pennarello nero a punta fine. «Su, siediti.»
Mi sistemo sulla seggiola. Anche se non era necessario, ho deciso di rasarmi tutta la testa. Non aveva senso lasciare una frangia di capelli, come se mi fossi beccata qualche malattia strana. Se devo morire, morirò con un aspetto dignitoso.
Il Conte mi sale in spalla. «Per prima cosa devi trattenere il respiro, fin quasi a soffocare.»
«Cosa?»
«Così si evidenziano le vene della fronte. Le ferite alla testa sanguinano molto, conviene trovare un punto dove ci siano meno capillari.»
Le ferite alla testa sanguinano molto.
Avevo proprio bisogno di sentirmelo dire.
Mi chiudo il naso tra pollice e indice.
Trascorrono i secondi. È assurdo come mezzora duri un istante quando ti devi alzare la mattina, e invece un solo minuto sembri trascinarsi all’infinito quando trattieni il fiato.
Le zampette del Conte mi sfiorano la fronte, l’animaletto mi si è arrampicato sulla testa. La punta del pennarello preme contro la pelle. «Basta così» dice il coniglietto.
Respiro.
Finora non è stato doloroso.
«Adesso?»
Il Conte balza sul tavolo. Ritorna con una siringa. «Anestetico locale e farmaco vasocostrittore.»
Non so bene cosa voglia dire, preferisco non indagare.
Il coniglietto sparisce dal mio campo visivo. L’ago della siringa mi punge.
«Ahi!»
«Aspettiamo qualche minuto che l’anestetico faccia effetto, intanto preparo gli altri strumenti.»
Gli altri strumenti oltre al trapano. Il trapano lo ho già a portata di mano, sul comodino, vicino alla lampada.
Mio Dio, lo sto facendo sul serio!
Non devo pensarci, non devo pensarci, non devo pensarci, non adesso, altrimenti mi tremano le mani e se mi tremano le mani mentre…
Non. Devo. Pensarci.
Il coniglietto si strofina le zampette con l’alcool, poi libera il bisturi monouso dall’involucro di plastica.
«Ti spiego come procederemo: farò un’incisione circolare, un po’ più grande del diametro della punta del trapano, quindi taglierò via lo strato superficiale di pelle.»
Le fette di torta mi risalgono in gola.
«Messo a nudo l’osso, procederai con il trapano. Faremo sessioni di pochi minuti, tra una e l’altra potrai riposare le braccia e io mi occuperò di togliere la polvere d’osso e asciugare il sangue. Sarà spiacevole, ma non proverai alcun dolore.»
«Quanto tempo ci vorrà?»
«Procedendo in sicurezza, penso che ce la caveremo in un’ora.»
Un’ora!
«Devo… devo andare a vomitare.»
Il coniglietto allarga le zampette. «Fai pure.»
Corro in bagno. Mi piego sulla tazza del water, rigetto una poltiglia marrone. Un altro conato. Bile e pezzetti mangiucchiati di pera. Lacrime mi rigano le guance. Non riesco a respirare, e ancora mi chino e vomito.
Torno alla sedia barcollando, la vista velata. Mi pulisco il mento con il dorso della mano.
«Tutto bene?» chiede il coniglietto.
«No.»
«Non importa. Procediamo.»
La lama incide la carne. La pelle si stacca dalla fronte, seguendo il movimento del bisturi. Il sangue scende piano, caldo e denso. Cola tra le ciglia e mi costringe a chiudere gli occhi; mi bagna le labbra, ha il sapore di quando inciampi e picchi la faccia per terra.
Nel buio, la stanza ondeggia.
Non devo svenire.
Cling! Il Conte deve aver buttato il bisturi nella bacinella di metallo. Mi sfiora la guancia con le zampette pelose. Mi sfrega qualcosa sul naso e sulle palpebre. Arrischio a socchiudere gli occhi. Il coniglietto mi pulisce il viso con una garza. Finisce di tamponarmi e getta via la garza tra la spazzatura.
Riprende il bisturi.
La lama preme più a fondo, graffia l’osso. Stringo le mani sudate a pugno. Vorrei gridare, ma le labbra sono incollate. Calma. Respira con calma.
Quanto diavolo ci vuole per tagliare un dannato centimetro di pelle?
La lama non si ferma. Traccia ghirigori sulla mia testa, disegni contorti da un orecchio all’altro. Non lo vedo ma lo so. Lo so perché il coniglietto è pazzo da legare. E io sono stata più pazza di lui a permettergli…
«Bene, l’osso è scoperto. Ti asciugo il sangue e possiamo iniziare con il trapano.»
Il Conte balza sul tavolo. Si sfrega le zampette con l’alcool. È striato di rosso, il sangue imbratta il musino. Raccoglie altre garze e si arrampica in spalla. Mi pulisce il viso.
«Prendi il trapano.»
Una goccia di sangue scende lungo la radice del naso. Il coniglietto la asciuga.
«Ti sbrighi o preferisci rimanere a sanguinare tutto il pomeriggio?»
Afferro il manico del trapano. L’impugnatura è di gomma ruvida. Lubrificante luccica intorno all’asta di metallo che termina con la punta a corona. Alzo il trapano, in verticale sopra la testa. Il Conte mi guida la mano, finché non allineo la punta con l’osso scoperto.
Non riuscirò a vedere niente di quello che succederà.
Meglio.
Il coniglietto ruota di un quarto la manopola sul fianco del trapano.
«Cominciamo a velocità tre.»
Una zampetta mi tocca le dita, preme delicatamente. Spingo in basso il trapano. Un tocco lieve e la punta è a contatto con l’osso. Irrigidisco i muscoli delle braccia per non tremare. La bile mi risale nell’esofago. Serro le labbra.
«Una volta acceso il trapano, devi solo spingere. Piano. Ti dirò io quando fermarti. Non è pericoloso se segui le mie istruzioni, perciò rimani tranquilla. Non sentirai niente.»
«Va… va bene.»
«In molte culture questa operazione era chiamata apertura del terzo occhio. Un onore a cui potevano aspirare solo i più saggi della comunità. Dovresti sentirti lusingata.»
Non hai idea quanto.
Due profondi respiri.
Premo il grilletto del trapano.
Il ronzio riempie le orecchie. Tremiti mi scuotono la testa, come se cercassi di dormire con la fronte appoggiata a una lavatrice in funzione.
Sono sotto una cascata. L’acqua è pompata dentro le ossa, e le fa vibrare. Per quanto cerchi di tenere la bocca chiusa, batto i denti.
Sangue dappertutto.
Scorre sul naso, riga le guance e il mento, gocciola sui pantaloni del pigiama, impregna il tessuto, cola fino alle ciabatte.
Respiro la polvere d’osso del mio cranio.
La punta del trapano è luminosa, è una lama incandescente che scava senza difficoltà. Non riuscirò a fermarla. La punta mi trapasserà il cervello. I dentini acuminati sbucheranno dalla nuca.
Il coniglietto mi batte sulle dita.
Pausa.
Ho provato a contarle ma si confondono le une con le altre.
Forse questa è la prima o la centesima.
Nelle pause è peggio. Senza il ronzio del trapano, ogni suono è amplificato. Il dibattersi degli insetti tra i rifiuti lo sento martellare contro le tempie. La pioggia che percuote il vetro della finestra mi stordisce.
Il coniglietto mi sfiora la mano.
Chiudo gli occhi.
Premo di nuovo, fino in fondo, il grilletto.
«Abbiamo finito» mi sussurra il Conte. Lascio cadere il trapano. Il tonfo esplode e io digrigno i denti. Non posso più aprire gli occhi. Il sangue ha appiccicato le palpebre.
I muscoli sono gelatina. Se solo accennassi a muovermi, mi accascerei sul pavimento. Il buco pulsa. Si espande nel buio. Lo immagino enorme, ampio quanto la fronte; se sollevassi una mano per palparmi la testa, le dita sparirebbero all’interno.
Metallo contro le labbra.
«Bevi.»
Un filo di limonata mi scende in gola. È tiepida e dolciastra.
Almeno non è sangue.
Bevo un altro sorso.
«Come ti senti?»
«Vorrei morire» biascico.
«Sei stata molto coraggiosa.»
«Già, già.»
Ma è la prima volta che qualcuno mi chiama coraggiosa. È bello, ha un buon sapore.
«Vuoi rimanere seduta o preferisci stenderti sul materasso?»
Socchiudo gli occhi. Il Conte mi è salito in spalla. È un batuffolo di pelo cremisi.
«Rimango seduta.»
Il coniglietto balza giù e atterra sul tavolo. Si lava le zampette e raccoglie il palmare. Mentre mi tagliavo i capelli lo ha rimesso assieme. Da un foro nella plastica si dipanano lunghi fili di rame. Al termine dei fili sono saldati gli aghi.
Il coniglietto accende l’apparecchio. Lo schermo scintilla di verde.
«Non ti preoccupare, il cervello umano non prova dolore. Non ti accorgerai di niente. Però tu continua sempre a contare a voce alta, d’accordo?»
«Perché?»
«Perché così saprò se sto affondando gli aghi dove non dovrei. Se non riesci più a parlare o ti metti a fare versi strani, vuol dire che sto stimolando le aree sbagliate.»
«Grandioso.»
Il Conte mi si arrampica sulla testa. Tira a sé lo strascico di fili; le punte degli aghi mi pizzicano il braccio.
«Pronta?»
«Sì.»
La luce della lampada fa brillare il corpo argento di uno degli aghi. Lo intravedo appena, sopra il naso.
Inspiro a fondo e inizio a contare.
«Uno… Due… Tre… Quattro…»
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