I freni del tram stridono, il mezzo si ferma con uno scossone, le porte a soffietto si aprono. Una vecchietta si affaccia sul predellino; dita rachitiche stringono la sbarra verticale di metallo in mezzo ai due scalini. Mentre la vecchietta si arrampica, scatta il rosso all’incrocio. Elena ne approfitta per chinarsi a raccogliere lo zaino. Abbassa la cerniera di una tasca laterale e ci fruga dentro finché non trova il pacchetto di sigarette. Ne prende una e accenna a infilarsela in bocca.
«Guardi, signorina, che non si può fumare in vettura» dice una signora seduta davanti a noi, scandendo bene l’ultima parola. Un’altra stupida, inutile vecchia. Il 37 è il tram che fa capolinea al Cimitero di San Gagliano ed è sempre pieno di cose decrepite. Cose goffe, puzzolenti, cretine.
Un giorno mi ridurrò anch’io così? No, non merito un destino del genere.
Elena rigira la sigaretta tra indice e pollice. «Non sto fumando, non vedi?» Sorride ironica. «Perché non ti compri un paio di occhiali, eh?»
Le rughe intorno agli occhi della vecchia si contraggono; arretra la testa contro lo schienale del sedile, quasi Elena l’avesse presa a schiaffi. Tipico dei vecchi sentirsi offesi per un nonnulla.
Un relitto è seduto a fianco della signora. Forse è il marito. Spelacchiato, smunto, la testa macchiata da chiazze marroni, come se si fosse rovesciato addosso il caffelatte; stringe allo spasimo il pomo del bastone da passeggio.
Sorrido anch’io. Hai qualcosa da dire, nonno? Cosa vuoi fare con quel bastone, sentiamo? Devi solo provarci ad alzare le mani. Dopo l’interrogazione di inglese ho proprio voglia di sfogarmi con qualcuno e se credi che mi trattenga perché sei un vecchio, hai scelto la giornata sbagliata.
La signora sfiora la spalla dell’uomo. Lui si rilassa sotto la giacca troppo grande. Il colletto della camicia è sporco e ingiallito, i polsini sono unti. Che schifo di persona.
I freni stridono. Il tram si ferma. La coppia di vecchi si alza a fatica e arranca verso l’uscita dietro di noi. Quando la signora passa accanto a Elena, la mia amica le mostra la sigaretta. «Hai visto adesso? Non sto fumando.»
Ci sediamo sui sedili di legno lasciati liberi dai due.
«Vecchi idioti» dice Elena. Cerca l’accendino nello zaino. Non lo trova e comincia a tastare le tasche del cappotto.
«Quante fermate mancano?» le chiedo.
«Una o due. Non lo ricordo di preciso, ma è la prossima dopo che passiamo il palazzo in costruzione.»
Ha recuperato l’accendino. Lancia uno sguardo verso la cabina del tram. «Dici che il conducente riesce a vedermi?» Sembra decidere di sì, perché tira indietro la testa e rimette l’accendino in tasca. «Hai già pensato a come spendere i soldi? Se finiamo in fretta possiamo passare in centro, lunedì hanno finito i lavori di ristrutturazione al centro commerciale.»
«Ma pagheranno di nuovo anche te? Non hai già fatto il test?»
«L’ho già fatto due volte. Questa sarebbe la terza. In certi casi devono ripetere l’esperimento per essere sicuri.»
«Sicuri di cosa?»
«Sicuri di quello che vogliono essere sicuri.» Elena allarga le braccia. «Certo che oggi sei proprio una lagna. Non sei stufa di dover sempre chiedere i soldi a tua mamma?»
Infatti quando posso li chiedo a papà, che non fa mai tante storie. Mamma ha questa politica assurda: ti do i soldi, ma devi dirmi cosa intendi farne. Mi servono per la scuola, no? E non ci crede. È proprio deficiente se pensa che vada a raccontarle quello che faccio.
La condensa appanna i vetri del finestrino. Pulisco un angolo per spiare fuori. Stiamo percorrendo la sopraelevata che scavalca i binari della stazione di Porta Augusta. Le coppie di binari si perdono all’orizzonte, spariscono nella nebbia. Nessun treno è in arrivo o in partenza. Una carrozza è abbandonata sul binario più a sinistra; erbacce soffocano la vettura, sotto il verde marcio c’è solo ruggine.
Il tram rallenta mentre scende il cavalcavia. Un paio di palazzoni con le facciate scrostate lasciano spazio a una rete metallica, alta diversi metri. Dietro la rete montagnole di terra, cataste di tubi di cemento, pile di mattoni. Un camion ha il pianale inclinato e rovescia una cascata di pietrisco in un fossato. Sullo sfondo, gru arancioni attorniano lo scheletro di un grattacielo.
Premo l’indice contro il vetro. «È questo il palazzo in costruzione?»
Elena gira la testa. «Sì, ci siamo quasi.»
Il vento ci aggredisce. Incasso la testa nelle spalle e mi metto dietro a Elena. Sono intirizzita. Avrei dovuto mettermi la sciarpa, anche se è aprile. Acceleriamo il passo e attraversiamo la piazza. Ci infiliamo in una stradina. Nel vicolo i vecchi edifici arginano le ondate di aria gelida.
«La chiesa è più avanti.» Elena allunga il braccio.
«Certo che è strano che facciano questi esperimenti in una chiesa.»
«Non è più una vera chiesa. È sconsacrata, è colpa dei satanisti o qualcosa del genere.»
La stradina diviene così stretta che anche se volessi non potrei affiancare Elena. Un frusciare di ali mi fa alzare il viso. Corvi attraversano la striscia di cielo grigio e si posano sui cornicioni dei tetti. Gli uccelli neri piegano i becchi verso di noi e lanciano versi striduli.
Bestiacce.
La chiesa si confonde con le case accanto, non fosse per un piccolo crocefisso di rame appeso sopra la porta. Elena picchia il batacchio a forma di testa di leone contro il legno. Due colpi. Al terzo scatta la serratura e la porta si socchiude.
Scendiamo i gradini di ferro di una scala a chiocciola. Sbuchiamo in un corridoio illuminato da luci al neon. Quando raggiungiamo lo sportello dell’accettazione, Elena mi fa cenno di fermarmi. Dietro il vetro è seduto un impiegato dall’aria sonnolenta, una mano a reggere il mento.
«Siamo qui per i test» dice la mia amica.
«Dovete compilare i moduli.» Il tizio sposta appena la testa, a indicare una pila di carta su una panca. «Avete una penna?»
Elena apre lo zaino e prende il suo modulo. Io faccio altrettanto. «Li abbiamo già preparati.»
L’impiegato solleva un sopracciglio. «La sala d’aspetto è in fondo al corridoio.»
Seggiole pieghevoli di plastica circondano un tavolino. Un termosifone elettrico ronza contro la parete. Ci togliamo i cappotti e ci sediamo. Sul tavolino sono sparse riviste di medicina. Sfoglio Gastroenterologia Oggi. Mi blocco a pagina cinque, davanti a un fegato pieno di cicatrici e noduli giallastri. “I rischi della cirrosi” è il titolo dell’articolo. Il rischio è di vomitare il panino salsa rosa che ho mangiato uscita da scuola. E c’è gente che paga per leggere porcherie del genere.
«Dovremo aspettare tanto?» chiedo a Elena.
Lei mugugna qualcosa che potrebbe essere sì, no, forse. È alle prese con il cellulare, ma non sembra esserci campo qui sotto, come se fossimo scese in una caverna.
Il soffitto a volta è molto basso. È stato imbiancato di recente. Un lavoro fatto da schifo, tanto che in alcuni punti si notano ancora i vecchi mattoni. L’umidità gonfia l’intonaco delle pareti. Il pavimento è di pietra. Una volta ho visto in TV una specie di documentario sui satanisti che rubavano le ossa dai sotterranei delle chiese. Perché c’era l’abitudine di seppellire i morti sotto le chiese.
Chissà se c’erano dei corpi qui, dove siamo sedute.
E i satanisti hanno disturbato i morti.
Sfioro il calorifero. Il metallo è bollente, ma in questo antro si gela.
Scalpiccio. Tacchi sulla pietra. Una dottoressa in camice bianco entra nella saletta. Elena si alza per salutarla.
La dottoressa le sorride. «Elena, giusto?»
Elena annuisce. Mi indica. «Lei è Silvia, sa la mia amica? La volta scorsa mi aveva chiesto se…»
«Ah, certo.» La tipa mi offre la mano. La stretta è lieve, umida, viscida.
«Qui ci sono i nostri moduli» dice Elena. La dottoressa non li degna di uno sguardo. «Hai spiegato alla tua amica come funziona?»
«Sì.»
«Vado a prendere le siringhe con l’agente di contrasto.»
«Cos’è un agente di contrasto?» sussurro a Elena, mentre la dottoressa sparisce nel corridoio.
«La roba che ti iniettano, ma non senti niente, te l’ho già spiegato. Rilassati.»
È stata un’infermiera a fare l’iniezione, mentre la dottoressa scarabocchiava sul retro del mio modulo. Ho sentito un lieve pizzicore, poi l’infermiera ha buttato via la siringa vuota.
Adesso sono seduta in una piccola stanza, una celletta scavata nella roccia. Sul ripiano davanti a me sono disposti un mazzo di carte e una telecamera, puntata verso il mio viso. Mi hanno attaccato alle tempie due elettrodi. I fili scendono sotto il tavolo e sono inghiottiti dalla parete, proprio sotto lo specchio. Che ho il sospetto sia come quello dei film: dietro lo specchio c’è gente che ti spia. Vorrei girarmi per controllare che la porticina dietro di me sia ancora aperta – non l’ho sentita chiudersi –, ma ho paura di tirare i fili.
«Puoi cominciare» dichiara una voce. La voce viene da un altoparlante montato sul soffitto.
Prendo la prima carta. È plastificata, un po’ più grande e spessa delle carte che usa la nonna per giocare a ramino. Il dorso è blu chiaro. La volto: un cerchio nero su fondo bianco.
Studio la carta e conto fino a dieci. La voce tace. Devo metterci più impegno? Esamino il disegno geometrico per qualche altro secondo.
«Va bene così?»
«Prendi un’altra carta» acconsente la voce.
Giro la seconda carta. Cerchio nero su fondo bianco.
La terza carta è identica alle prime due. Che sia un mazzo di carte tutte uguali? Ha senso?
Tengo la mano sul mazzo, il palmo premuto sul dorso della carta in cima alla pila, le dita distese. Volto la carta di scatto: ancora cerchio nero su fondo bianco.
Il polso comincia a farmi male, come l’anno scorso, quando mi ero messa in mente di imparare a giocare a tennis. La quinta carta la prendo con la sinistra. Le dita mi mandano una fitta quando le piego.
Respiro sempre più in fretta. Il tanfo del fegato sfigurato dalla cirrosi impregna la stanza. Mi viene vomito. Cosa mi sta succedendo?
«Non…» Ho un capogiro. «Non mi sento bene.»
La trama di pietre del pavimento pulsa, sempre più vicina. Il cuore mi martella in petto. Afferro il bordo del tavolo. Il mazzo di carte frana. Le carte si spandono a terra.
Cerchio nero su fondo bianco.
* * *
Il Conte sporge il musino da sopra la mia testa. Alzo gli occhi e incontro i suoi. «Hai smesso di contare» dice il coniglietto. «Come ti senti? Ce la fai a parlare?»
Ho la gola secca e non so cosa significhi “parlare”. Socchiudo la bocca. Un filo di saliva mi cola dalle labbra.
Parlare.
Mugolo. Emetto un lamento, il verso di un animale ferito.
Parlare? Come si fa a parlare?
Il coniglietto ritrae il musino.
Tintinnio metallico contro l’osso del cranio. Gli aghi sfregano il bordo del buco. Un lampo dietro gli occhi.
«Cosa… eh? Sì, sì, parlo. Credo.»
«Avevi smesso per quasi un minuto.»
«Ho rivissuto un ricordo. Ma era prima. Prima che ti incontrassi.»
«Quanto prima?»
«Aprile.»
Le zampette del Conte ballano sulla mia fronte. Altri aghi scintillano ai limiti del mio campo visivo. «Forse ci siamo» dice il coniglietto. «Riprendi a contare.»
«Uno… Due… Tre… Quattro…»
La spada descrive un arco con la velocità del fulmine. Dietro la lama rimane una scia palpitante di energia magica. Sulle squame che coprono il collo del demone si disegna un tratto netto, nero di sangue.
Volto pagina e nella vignetta successiva la testa cornuta del mostro piomba nella polvere. La principessa Himiko stringe l’impugnatura della spada con entrambe le mani. Punta l’arma contro la nuca della bestia; la cala verticale e trafigge il terzo occhio del demone. Il mostro urla. Dalle fauci spalancate strisciano via le anime dei prodi guerrieri uccisi nei capitoli precedenti.
Noia.
Minimo adesso resuscita anche il monaco Obudan, e se c’è un personaggio antipatico è lui. Apro la mano, il manga scivola via tra le dita e mi cade sulla faccia. Scrollo la testa e il volumetto scivola giù dal viso. Una macchia grigia incorona il corpo di Himiko, dove la carta ha toccato la mia fronte sudata.
L’afa è atroce. Finestra aperta e tapparella alzata: non arriva un filo d’aria. Sotto di me il lenzuolo è fradicio. Sono sdraiata, immobile, e sono in un bagno di sudore. Riprendo il manga, lo agito davanti alla faccia, come fosse un ventaglio. La sveglia sul comodino pigola. Piego la testa. Mezzanotte in punto.
La porta della camera si apre. Mamma entra, senza bussare.
«Non è il caso che spegni la luce e ti metti a dormire?»
Mi hai tolto Internet. Non mi lasci andare in vacanza. Hai buttato il Conte in strada. Non è il caso di farti almeno gli affari tuoi?
Mostro la copertina del manga a mamma. «Non posso più neanche leggere adesso?»
«Stai sicura che i soldi per comprare certe stupidate non li vedi più. Non devi leggere niente per scuola? Non hai compiti per le vacanze?»
Mi giro verso il muro e le do le spalle.
«Rispondi, Silvia!»
Altrimenti?
Sfoglio la pagina successiva del fumetto, la faccio frusciare apposta perché si senta il rumore. Le dita sudate lasciano aloni grigi sulle zone nere dei disegni. Giro un’altra pagina. Sbadiglio.
Un tonfo. Mamma è uscita e ha sbattuto la porta.
«Non si sbattono le porte» urlo.
Un secondo tonfo: mamma si è ritirata in camera sua. Scendo dal letto, in punta di piedi raggiungo la porta e spio in corridoio. Buio. Un riquadro giallo circonda il battente della stanza di mamma. Due minuti dopo si spegne anche quella luce.
Rientro in camera, prendo la lampada dal comodino, la accendo e la metto sul davanzale della finestra. Inclino la testa della lampada verso il basso. Illumino un circolo di erba rinsecchita in giardino.
Mi siedo sulla sponda del letto; sbadiglio di nuovo, questa volta senza farlo apposta. Speriamo che lui si sbrighi, o me ne vado a nanna sul serio. Tasto il copriletto dietro di me, a cercare il manga.
All’ultima pagina, il raspare sul cemento mi fa alzare la testa. Il Conte è balzato sul davanzale, una sigaretta tra le labbra. «Non hai idea di quanto sia difficile trovare un tabaccaio aperto la sera ad agosto.»
Unisce le zampette a coppa intorno all’accendino e una fiamma rossa accende la punta della sigaretta. Inspira a fondo. «Hai preparato il latte? E la frutta candita?»
Sbuffo. «Sì, sì, è tutto pronto.» Apro l’anta del comodino e tiro fuori il termos, poi scoperchio una ciotola che ho chiuso con la carta stagnola. La ciotola è piena di pezzettini di frutta candita.
Il coniglietto finisce di fumare. Spegne la cicca contro il davanzale e la butta di sotto. Salta sul letto. Fruga con una zampetta tra i bocconcini dolci. «Non c’era solo albicocca? Non mi piacciono ananas e banana.» Sgranocchia una fetta di albicocca incrostata di zucchero.
«C’era solo la confezione mista. Ringrazia che sono riuscita a prenderla, ormai mamma è insopportabile, mi controlla persino i centesimi.»
Il Conte annuisce. Svita il termos ed estrae il biberon. Beve un sorso di latte; rovista nella ciotola e si caccia in bocca gli altri pezzetti di albicocca. Si pulisce il pelo con il copriletto. «Come va?»
Come vuoi che vada?
Roberto è in piedi sulla piattaforma, sfocato nel ricordo. Le fiamme lambiscono i pilastri. Fumo rovente rende l’aria irrespirabile, l’onda di calore che si sprigiona dall’incendio mi costringe ad arretrare. Tra il fuoco spuntano zanne di acciaio, lunghe quanto il mio braccio.
Scuoto la testa.
«Ho smesso di piangere, se è questo che intendi.»
«Era ora. Hai fatto gli esercizi che ti ho assegnato?»
«Forse.»
«Silvia, sono stufo di ripeterti sempre le stesse co–» Gli occhietti carbone del Conte si dilatano. L’espressione sul musino passa dalla consueta disapprovazione allo stupore. Il coniglietto agita le zampette verso la ciotola, sfiora il bordo, la rovescia, non riesce ad aggrapparsi.
Sta volando.
Filamenti traslucidi convergono verso un punto in mezzo alla stanza, dove ho creato una sfera di massa enorme, ma delle dimensioni di un coriandolo.
Il Conte galleggia verso la sfera. Dietro di lui si solleva il copriletto, come fosse il lenzuolo di un fantasma. La ciotola si ribalta e sparge nell’aria frammenti di frutta candita, che rimangono in sospensione. Crepe corrono lungo il soffitto. Scaglie di intonaco si staccano dalle pareti. Il lampadario piega il lungo collo, catturato dal campo gravitazionale della sfera.
Ho un pochino esagerato.
Dissolvo il coriandolo, lo trasformo in polvere nera. Il Conte cade, ma prima che tocchi il letto, creo accanto a lui una nuova sfera. La sposto fino all’angolo opposto della stanza, il coniglietto al traino.
Guido dita invisibili alla libreria. Sfilo una manciata di CD. Le confezioni vorticano intorno a me, scelgo quella con in primo piano l’immagine di un’orchestra sinfonica. Per l’occasione ci vuole musica classica.
«Puoi anche mettermi giù!» strilla il coniglietto, premuto contro il soffitto.
La confezione di plastica distende le ali. Il CD rotola fuori. Lo prendo in mano e lo infilo nello stereo. Non voglio rischiare di sfasciare qualcosa schiacciando i tasti con la gravità.
La musica avvolge la stanza. Abbasso un pochino il volume per non svegliare mamma. Rivolgo un breve inchino alla platea che non esiste. «Lo spettacolo ha inizio!» annuncio.
Muovo le mani, con gesti ampi e decisi, imitando un direttore d’orchestra. Lancio il coniglietto verso la parete, lo fermo prima che si spiaccichi; lo faccio levitare fino al lampadario. Al suono dei violini, gira intorno alle quattro lampadine disposte a rombo. Sempre più veloce!
Lo lascio andare. Lo riprendo a meno di un centimetro dal pavimento.
Il coniglietto annaspa, come se potesse nuotare nell’aria. Il pelo gli ha coperto gli occhietti. «Mettimi giù! Mettimi giù subito!»
Lo porto davanti a me.
«Sai? Avevi ragione. Riesco a vedere la gravità.»
«Questa me la paghi» ringhia la bestiola.
Mentre la musica si attenua, conduco il coniglietto alla finestra aperta. «Non vuoi fare un giretto fuori?»
«No!»
Lo riporto al letto, facendolo volare a testa in giù.
«Ti credevo più avventuroso.»
Lo adagio sul cuscino. Il Conte cerca subito di rimettersi dritto, ma non è saldo sulle zampette. Si accascia sul fianco. «Mi gira la testa. Mi viene nausea. Ho bisogno di una sigaretta.»
Per una volta sono io a fissarlo con una smorfia di disapprovazione. «È colpa tua.» Gli agito l’indice davanti al musino. «Non dovresti volare subito dopo cena.»
Il coniglietto si trascina fino al pacchetto di sigarette. Con zampette tremanti si porta una sigaretta alla bocca. «Questa me la paghi» ripete.
Lo prendo in braccio. Gli carezzo il pelo arruffato, gli liscio le lunghe orecchie. «Cosa ne dici? A me sembra di aver imparato.»
Il coniglietto tossisce. Ha l’aria di chi stia per vomitare anche l’anima, ma tiene duro. Inspira una boccata di fumo. «Vedremo se hai imparato.»
Il Conte si è ripreso in fretta. Ha mangiato i rimasugli di frutta candita e si è scolato il latte. Siede sul davanzale, fuma e scruta la Luna. Il disco color argento domina il cielo.
«Così pensi di aver imparato a controllare la gravità.» Spegne la sigaretta contro lo stipite della finestra. «Io dico che imbranata come sei hai solo imparato a dar fastidio ai coniglietti.»
«Io dico che ti dà solo fastidio perché non puoi rimproverarmi come al solito.»
«Vieni qui e verifichiamo subito.»
Mi affaccio alla finestra. Il coniglietto indica la strada con una zampetta. «Lo vedi quel furgoncino bianco?»
Il furgoncino è parcheggiato sotto un lampione; sul fianco del mezzo è dipinto un sacchetto della spesa sorridente. Con le rotelle. Dev’essere il furgoncino per la consegna a domicilio di qualche supermercato.
Accenno di sì con la testa.
«Mandalo sulla Luna.»
«Stai scherzando?»
«Hai sentito. Spediscilo sulla Luna. Se hai davvero padronanza della gravità non dovrebbe essere un problema. Tormentare me, lanciare nello spazio un furgoncino o far collassare una stella sono operazioni identiche, è solo questione di attenzione e controllo.»
«Non sarà pericoloso?»
Il coniglietto soffia via un alito di fumo. «In effetti trasformare le stelle in buchi neri richiede una certa prudenza. Non dovrebbero esserci grossi rischi con il furgoncino.»
«Ok. Ci provo.»
Ombre si incrociano sopra il sorridente sacchetto della spesa, mentre sale oltre il cono di luce del lampione. L’intero furgoncino è adesso una macchia scura nel cielo nero. La forma indistinta si sovrappone al profilo della Luna. Il puntamento è giusto. Manca solo una delicata spinta.
«La soluzione più semplice è che deformi lo spazio-tempo fino a far combaciare Luna e furgoncino» spiega il Conte. «Come ti ho insegnato l’altro giorno con gli origami e gli elastici.»
E io facevo solo finta di ascoltarti. Ma credo di ricordare abbastanza.
Inspiro a fondo. Al successivo battito del mio cuore la realtà si sgretola in un oceano di polvere nera. Turbini di polvere si concentrano in un singolo punto. La gravità inizia ad alterare lo spazio-tempo. Luna e furgoncino sono agli estremi di una corda, e io la sto tirando nel mezzo, per spingere i due capi a toccarsi.
Il furgoncino vibra. Il parabrezza esplode in una nube di schegge.
Calma. Non devo avere fretta o lo disintegro.
Lunghi respiri.
Ho il battito accelerato. Non riesco a mantenere stabile la nuova struttura dello spazio-tempo. La polvere si disperde di continuo e torna spontaneamente ad aggregarsi, ricrea una realtà che io voglio diversa.
Lo voglio!
Il cielo avvampa di bianco. Il Sole sorge e tramonta. Spettri invadono il paesaggio. Personaggi eterei riempiono i marciapiedi. Camminano attraverso i muri delle case. Alcuni sono sospesi a mezz’aria. Di altri spunta dall’asfalto solo la testa. I fantasmi si lasciano dietro una scia formata da copie di loro stessi. I palazzi si disgregano e tornano a essere materiali da costruzione. Gli alberi rimpiccioliscono e sono assorbiti nel terreno.
Non perdere il controllo, non adesso!
Ma mi sono distratta.
Gli spettri evaporano.
Il furgoncino piomba a terra. L’onda d’urto scuote i vetri della finestra. Uno sbuffo di fumo grigio si alza all’orizzonte. La sirena di un’ambulanza urla, sempre più vicina. Si svegliano gli antifurto delle macchine. Nel palazzo di fronte si accendono le luci; un tizio in canottiera si sporge dal balcone.
Indietreggio di un passo, le ginocchia non mi reggono, mi accascio sul letto. I suoni giungono attutiti. Sfioro l’orecchio e il sangue scorre sulle dita. Cerco a tentoni il fazzoletto sul comodino. La mano trema.
Lo raccoglie il Conte e me lo passa.
«Non ci siamo.»
«Lo so.» Aiutandomi con i gomiti mi rimetto seduta. Mi pulisco le orecchie. «È come con le altre Magie. Finché sono giochetti semplici non ho problemi, ma appena…» Il fazzoletto si è tutto sporcato di sangue. Altre rogne con mamma se lo scopre. «Ma appena provo con qualcosa di più complesso…»
«Credo di sapere perché succede.»
Sollevo il viso. «Perché?»
«Perché non sei come gli altri Maghi.» Il coniglietto mi sale sulle ginocchia. «Se ci fosse stato qualcuno dentro il furgoncino, avresti provato lo stesso a lanciarlo sulla Luna?»
«Che razza di domanda, no.»
Il Conte si arrampica in spalla. «È questo il problema. Il problema è che in fondo sei una brava persona. Ma un Mago non può mettere niente al di sopra della propria volontà. Non devi frenare i tuoi desideri, non ci devono essere differenze tra quello che desideri e la realtà. Questo è il potere di un vero Mago.»
«Non sono sicura di aver capito.»
«Per modellare la realtà a tuo piacimento devi essere disposta a distruggerla. Un vero Mago non considera mai le conseguenze, perché nessuna conseguenza ha senso rispetto alla sua volontà. Un Mago è l’incarnazione dell’istinto di sopravvivenza dell’intero Universo. Un Mago è la tempesta, il bruciare di una stella, la nascita e la morte delle galassie. Un Mago non ragiona, non calcola, non riflette. Un mago desidera!»
Gli occhietti del coniglietto luccicano. Ma ancora non è che il concetto mi sia proprio chiaro. «Io non desidero uccidere nessuno. Be’, sì, qualcuno sì, ma non riuscirei mai a farlo a sangue freddo. E comunque non capisco perché non possa imparare a usare la Magia senza far del male. Anche se ho delle difficoltà, ho già imparato molto.»
«No, Silvia, non stai imparando. Non stai imparando un bel niente! Dannazione!»
Il Conte balza giù e acchiappa il pacchetto di sigarette. «Qualche stupido giochetto da prestigiatore.» Batte il pacchetto contro il palmo della zampetta, ne esce solo polvere di tabacco. «Ecco tutto quello che hai imparato!» Stringe più forte il pacchetto, il cartoncino scricchiola. Il Conte tira il pacchetto contro il calorifero.
«Stai sfiorando l’acqua con la punta delle dita, invece di immergerti. Hai troppa paura delle conseguenze.»
«Non lo faccio apposta.»
Il coniglietto salta sul davanzale. Gli angoli della boccuccia sono piegati all’ingiù. Non disapprovazione, tristezza. «Hai diritto ad aver paura. E avresti diritto a un destino migliore. Per oggi la lezione è finita, vado a cercare un altro tabaccaio aperto.»