Il blog riapre

domenica, ottobre 10th, 2010

Chiara ha deciso di riapre il blog, vedi qui.

Così riapro anch’io! Ho aggiunto ai download il testo in formato ePub, visto che adesso questo formato lo supportano molti lettori di ebook. Già che c’ero ho fatto un po’ di line editing ai vari capitoli.

Non faccio previsioni su quando uscirà il prossimo capitolo, ma ribadisco la promessa di concludere la storia.

Coniglietto bianco che spia i progressi del romanzo!

Capitolo 12

domenica, gennaio 24th, 2010

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Il ghiaccio incrosta il telaio della finestra. La neve copre il davanzale. Dietro i vetri, i fiocchi scendono lenti. Una coltre bianca avvolge la collina.

Soffio sulla tazza di cioccolata. Non fa freddo nella casetta, ma tenere le mani intorno alla porcellana calda è lo stesso piacevole. Il tepore che risale dalle dita è delizioso. Anche il profumo della cioccolata non è male. Accosto le labbra alla tazza e assaggio con la punta della lingua. Dolce al punto giusto. Forse un po’ troppo liquida, ci vorrebbe la panna montata per compensare.

Sulla cioccolata ci vorrebbe sempre la panna montata!

Torno a sedermi al tavolo. «Non abbiamo la panna, vero?»

La ragazza, seduta di fronte a me, si stringe nelle spalle. E ti pareva. È casa sua e non ha idea di quello che contengono gli scatoloni. Il cacao, lo zucchero e la farina li ho dovuti cercare io, rovistando dentro uno scatolone dopo l’altro. Ho impiegato tutto il pomeriggio.

Va bene, rinunciamo alla panna. Per fortuna ho trovato le cialde. Ne immergo una a forma di sigaro nella tazza. Mangio la cialda in due bocconi. Non male, non male davvero, solo un pizzico di farina in più e ci siamo.

«La cioccolata non è venuta male, non vuoi almeno assaggiarla?»

La ragazza piega la testa di lato. Socchiude gli occhi verdi. Il fumo caldo che sale dalla sua tazza le ha arrossato le guance. «La cioccolata è buona» dichiara.

Lo dice solo per farmi contenta, lo so. Sospiro e intingo un altro biscotto.

Sgranocchio la cialda. L’enorme ragno smeraldo si sovrappone ai disegni floreali della tovaglia. L’immagine del mostro mi è rimasta impressa negli occhi. Sono sveglia da ore e il sogno è sempre vivido. È stato un incubo terrificante. E non vuole andar via, non vuole sparire dalla mente.

Le zampe del ragno si arrampicano sulla superficie della tazza. Strisciano lungo la porcellana, sinuose come ombre. Scatto all’indietro, i gommini sotto le gambe della sedia stridono. Il ragno si ritrae, sguscia sotto il tavolo.

La ragazza non muove un muscolo, indifferente.

«Devi aiutarmi» dico. «Tu sai quello che sta succedendo, ti prego dimmelo. Non voglio più soffrire come ieri notte.»

«Non credo di poterti aiutare.» L’espressione della ragazza è mogia. «Non senza la parola chiave che hai scelto tu.»

«Ma io non la so! Non la ricordo. Dannazione, aiutami! Ti prego

La ragazza si china. Raccoglie dal pavimento la confezione del cacao in polvere. Appiattisce la scatola, quindi strappa il cartoncino; una linea frastagliata taglia in orizzontale le parole “cacao in polvere”.

«Questo è quello che so.» La ragazza solleva la mano destra, dove tiene la metà della scatola con la parte superiore della scritta. «E questa è la parola chiave.» Solleva la sinistra, che regge l’altra metà della scatola.

Fa combaciare i due pezzi e la scritta si ricompone. «Solo con la parola chiave posso aiutarti.»

Non sono sicura di aver capito. «Ma questa parola chiave quanto è lunga? Posso indovinarla? Quante lettere sono?»

«Dieci alla ventidue.»

«Dieci alla…»

La ragazza annuisce. «È un numero grandissimo.» Allarga le braccia. Esita. Le allarga ancora di più, come ad abbracciare l’intera stanza. «È un uno seguito da ventidue zeri.»

«Mi stai prendendo in giro?» Sto per dare una manata alla tazza e rovesciare la cioccolata, ma ho schifo a toccare dove si sono posate le zampe del ragno. «Come posso ricordare una parola chiave del genere? Come posso pronunciarla?»

«Sei tu che hai scelto la parola chiave.»

Le lancette dell’orologio appeso alla parete raggiungono la mezzanotte. Il vento scuote la finestra. I fiocchi di neve picchiettano contro il vetro. Mezzanotte. È ora di tornare. È ora di dormire e sognare.

Mi aspettano nuovi incubi. Non è giusto!

La porta dietro di me scricchiola. Il vento urla più forte. Spifferi gelidi si intrufolano da sotto il battente e mi pizzicano le caviglie.

«Senti, posso rimanere qui? Solo per questa notte?»

«Fai pure.»

La ragazza tira su il cappuccio. L’ombra nasconde i capelli dorati, copre i grandi occhi da cartone animato. Il respiro si spegne. La ragazza è immobile.

La porta sbatacchia. Spruzzi di neve spargono tracce bianche sul pavimento. Adesso la casetta è gelida. Scalcio la sedia e indietreggio verso gli scatoloni, le braccia strette al petto.

Il vento ruggisce, la neve martella la finestra. Crepe solcano i vetri. Frammenti di intonaco si staccano intorno al telaio. Qualcosa di pesante si scaglia contro la porta. I cardini schizzano via, il battente divelto piomba a terra. Il boato riverbera nella stanza.

La testa mostruosa del ragno si affaccia all’interno. Gli otto lucidi occhi di cristallo esplorano l’ambiente. La bestia allunga una delle zampe. L’artiglio colpisce le assi del pavimento e scava nel legno. Il ragno fa forza sulla zampa per trascinarsi dentro. I fianchi di smeraldo raschiano la vernice dagli stipiti; un’altra zampa scatta in avanti e uncina le assi.

Respiro sempre più in fretta. L’aria si condensa davanti alla bocca. Le dita sono ghiacciate, i piedi non si vogliono muovere. Sono paralizzata. Non anche qui. Non quando sono sveglia. No!

Il ragno arretra e riparte all’assalto. Le pareti della casetta tremano. L’intelaiatura della porta cede. I mattoni si sbriciolano. Il mostro entra sotto una pioggia di calcinacci.

Gli ingranaggi d’ombra ticchettano.

«Il mio Padrone saprà convincerti.»

 

* * *

 

«Come stai?» Il coniglietto è chino su di me. Gli occhietti neri si confondono con il pelo. La camera è buia. «Ti ho preso un succo di frutta. Su, bevi.»

Mi offre la cannuccia. Socchiudo le labbra screpolate. Il coniglietto inclina il cartoccio del succo. Gocce al sapore di pesca mi bagnano la lingua.

Il ventilatore non ha smesso di ronzare. La ragnatela è scomparsa nell’oscurità, ma io so che è ancora lì. E il ragno è marchiato a fuoco nelle retine. Sogno e realtà sono orribili allo stesso modo. Non esiste via di fuga.

«Ce la fai ad alzarti?»

Spingo con i gomiti e mi metto seduta sulla sponda del letto. Il Conte mi lascia il succo di frutta e salta sul comodino. Accende la lampada. «Hai dormito più di dodici ore. Sono le dieci di sera passate.»

Acqua sporca. Puzza di detersivo. Piastrelle frantumate. Mamma e papà in fila per entrare al cinema. Papà. Papà sarà a casa. Lo immagino seduto in soggiorno, i gomiti sul tavolo, la testa tra le mani. «Devo avvertire papà. Devo dirgli che sto bene.»

Il Conte ha recuperato da sotto la pancia un pacchetto di sigarette. Ne estrae una e la porta alle labbra. «Ci ho pensato io.»

«Ci hai pensato…»

Ci sarà la polizia a casa? Magari papà sta male. Dovrei essere con lui. E lui dovrebbe stare con me perché io mi sento malissimo. Il succo di frutta mi sfugge di mano, rotola sulle ginocchia, cade sulla moquette.

Il coniglietto unisce le zampette a coppa. La fiamma dell’accendino brilla di rosso intenso. «Non ti preoccupare. Ho sistemato io. Fidati.» La punta della sigaretta brucia. Volute di fumo grigio nascondono il musino del Conte.

Non fidarti del coniglio. Prova a chiedergli come passava il tempo prima di incontrare te. Chiedigli chi era.

«Chi sei? Chi sei veramente?»

Il Conte posa la cicca sul bordo del posacenere. Granelli di cenere si adagiano sul disegno di una casetta tra i monti. «Io sono solo un coniglietto parlante.»

Le mie dita stringono il tessuto dei jeans. «Rivoglio indietro la mamma. Subito. Se sono il Mago che dici, posso farlo.»

«Ci sono limiti al potere di un Mago. Neanche un Mago può ricostruire l’informazione alla base di una coscienza. Non c’è alcun modo per riportare indietro la mamma.»

«Capisco.» Le unghie spezzate graffiano il cotone. «Io ho il potere di salvare l’Universo, ma non posso salvare la mamma. E tu sei solo un coniglietto.» Tiro su col naso. «Non è vero. Sei un bugiardo, sei solo un bugiardo!»

«Quando una creatura dotata di coscienza muore, le informazioni che la definiscono come essere individuale sono perse per sempre.» Il coniglietto salta giù a raccogliere la cannuccia. Fa cadere una goccia di liquido arancione sul palmo di una zampetta. «Immagina che ogni coscienza sia una goccia. Quando moriamo, la goccia si unisce al mare. Non la si può più separare dalle altre. Neanche un Mago può farlo.»

Serro le labbra. Mamma ha la bocca spalancata. Urla in silenzio. Il sangue scorre dalla ferita allo stomaco. Non hai fatto niente per aiutarmi. Niente. Mi hai lasciata morire. Non vuoi aiutarmi neanche adesso!

«Puoi modellare una nuova persona che somigli alla mamma. Avrà il suo aspetto fisico e i suoi ricordi, ma non sarà lei.»

Il Conte riprende la sigaretta. Dà lunghi tiri. Il fumo vela la luce della lampada. «Non lasciare che la morte della mamma sia stata invano. Non soffocare la rabbia. Non avere paura dei tuoi sentimenti.»

«Io non so cosa provo. Sto male.»

«Vedrai che presto ti sentirai meglio.»

Il coniglietto spegne la sigaretta sulla porticina della baita. «Finora ti ho insegnato come usare la Magia per modificare la realtà. Ma la Magia può essere usata anche per distruggere. È la Magia più difficile e potente che un Mago possa compiere.»

 

* * *

 

Le ginocchia molli non mi reggono. Crollo sulla moquette. Non distinguo più niente, il mondo è rosso sangue. La testa mi martella. Ogni giuntura del corpo è sul punto di spezzarsi. Tengo la bocca socchiusa, se i denti si sfiorano tra loro, si sbriciolano.

«La prima volta è sempre molto dura.» Il coniglietto è una macchia indistinta. La macchia asciuga il sudore che mi bagna il viso con un lembo del lenzuolo. «Ma sei stata bravissima.»

Batto le palpebre. Metto a fuoco il ventilatore. Sono sdraiata supina per terra. La schiena rigida, pronta a rompersi al minimo movimento. «Ho bisogno», biascico, la gola è in fiamme, «ho bisogno di riposare per qualche minuto.»

«Prenditi tutto il tempo che ti serve.» Il coniglietto si ritrae. Il tonfo attutito delle zampette sul comodino; il fruscio della plastica attorno al pacchetto di sigarette. Dita di fumo strisciano verso le pale del ventilatore.

Calmo i respiri.

Nessuna Magia era stata tanto dolorosa. Mille mani mi hanno afferrata e trascinata sott’acqua. Non potevo riaffiorare, per quanto mi agitassi. Ho spinto e scalciato. Le ossa scricchiolavano. Sono scesa sempre più in profondità. La pressione mi ha schiacciata. L’acqua si è tinta di rosso.

Giro la testa verso il comodino. Il posacenere non esiste più. Al suo posto è rimasta una impronta nell’aria. Un intreccio di linee che sbiadiscono lentamente.

Il coniglietto passa la zampetta attraverso il fantasma del posacenere. «Non è sparito del tutto perché è ancora nei nostri ricordi.» Le linee si accorciano. Rimpiccioliscono a ogni battito di ciglia. «Per fortuna gli altri osservatori della stanza non hanno memoria.»

Mi puntello con un gomito e sollevo la testa. Il collo manda una fitta. «Quali altri osservatori? Chi c’è con noi?»

«Il comodino, la cannuccia, la lampada, il letto.» Il Conte rigira la sigaretta tra le zampette. «Questa sigaretta, l’accendino e ogni altro oggetto. Ogni oggetto contribuisce a rendere concreta la realtà. Ma gli osservatori che non hanno memoria sono molto più propensi ad accettare un cambiamento radicale.»

Riappoggio la nuca alla moquette. «Non ho capito.»

«La realtà è fluida. Appare concreta grazie al continuo accordo tra gli osservatori. Per esempio ci aspettiamo che le leggi della fisica siano immutabili, e per questa ragione lo sono.»

«Ho sete.»

«Per questo distruggere la realtà è la Magia più difficile. Perché nessun altro osservatore è disposto a negare l’esistenza della realtà stessa. Nessuno tranne il Mago.»

Il coniglietto zampetta fino alla finestra. Balza sul davanzale, torna con un cartoccio di succo di frutta. «Bevi.»

Questa volta è albicocca. Preferivo la pesca.

«Ti sei mai chiesta perché è così faticosa una Magia cosciente rispetto a una Magia involontaria?»

Mi pulisco la bocca con il dorso della mano. «No. Non lo so.»

«Una Magia involontaria porta in superficie un accordo già esistente. Una Magia cosciente deve imporre la volontà del Mago. È come scegliere un quadro da una galleria d’arte invece di dipingerlo da zero.»

Le parole del Conte hanno uno strano eco. Le ho già sentite. Le ha già pronunciate in passato. Ti sei mai chiesta perché ho l’aspetto di un coniglietto?

«Ti sei mai chiesta perché sono un coniglietto?»

«Forse.»

«Perché già miliardi di osservatori concordavano sulla mia esistenza. Io sono protagonista di favole, romanzi, cartoni animati. I coniglietti parlanti sono ovunque, appena al di sotto della soglia per esistere.» Il Conte osserva la punta della sigaretta. La carta brucia e annerisce. «Tu mi hai fatto superare la soglia.»

«Chi sei veramente?»

Due tiri e il coniglietto finisce la sigaretta. Butta via la cicca. «Bevi un altro po’ di succo, poi riprenderemo gli esercizi.»

Chiudo gli occhi.

«Sono stanca. E sono esercizi inutili. Per uccidere con la Magia non ho bisogno di annientare la realtà.»

«Ne avrai bisogno per uccidere le ombre.»

 

* * *

 

Le lunghe e sottili zampe del ragno cercano i punti più adatti dove far presa tra la ghiaia. L’insetto scavalca un sassolino e passa davanti alla punta della scarpa. Sollevo il piede e lo schiaccio.

Il sudore scende lungo le guance e il collo, mi pizzica la nuca. Le nuvole nascondono il Sole, ma l’afa è lo stesso atroce. Non spira un alito di vento. Il fumo della sigaretta è un filo grigio senza interruzioni.

Il coniglietto spegne la sigaretta contro il ferro della panchina e mi sale in spalla. «Hai capito quale finestra? Puoi anche farlo da qui.»

Il palazzo di sei piani vibra nel caldo, sembra un miraggio. La facciata bianca sfuma nel cielo color latte. Le finestre e i balconi si susseguono a breve distanza. Gli appartamenti devono essere monolocali. Le cellette di un alveare.

L’autobus parcheggiato davanti ai giardinetti riparte. Una nube si solleva dalla strada polverosa e vela i primi due piani del palazzo. Da una delle finestre arriva il mormorio di una radio.

«Sei sicuro che la dottoressa abiti qui?»

«Il balcone con i vasi, quasi all’angolo. Abita nell’appartamento di sopra. E non è più un medico da anni, è stata radiata dall’ordine.»

Scorro le cellette. Individuo i vasi di plastica nera e i fiori appassiti. Alzo lo sguardo. Le finestre dell’appartamento di sopra sono chiuse, le tapparelle abbassate. La dottoressa starà ancora dormendo. Vado a prendere le siringhe con l’agente di contrasto. È stata lei a farmi le iniezioni nel sotterraneo della chiesa.

«Vive da sola?»

Il coniglietto batte il fondo del pacchetto di sigarette contro la spalliera della panchina. Sfila una nuova sigaretta. «Sì.»

«Non credo di riuscirci.»

«Sai perché è stata radiata? Si faceva pagare cifre astronomiche dai malati di leucemia. Per curarli con il bicarbonato.» Il coniglietto dà un tiro. «Questa è una delle persone che hanno ucciso la mamma.»

Il volto di mamma che urla. Le sue mani insanguinate si chiudono sull’artiglio che le squarcia lo stomaco. Le dita scivolano sul sangue. Non mi hai aiutata! Mi hai lasciata morire!

Una morsa mi stringe il petto.

Non vuoi aiutarmi neanche adesso!

«Però la dottoressa… lei non è un’ombra»

«Non ha importanza, è lo stesso responsabile. Ha scelto lei di servire le ombre. Non merita pietà, e tu non meriti di continuare a soffrire.»

Ma il dolore al petto non si attenua al pensiero di usare la Magia. Non voglio usare la Magia. Non voglio uccidere. Non voglio niente. Voglio solo smettere di soffocare. «Oggi. Oggi non ci riesco. Andiamo via.»

«No, Silvia, devi farlo adesso.»

Un secondo autobus rallenta e si accosta alla fermata. Non sale e non scende nessuno. Il mezzo riparte. L’onda di polvere rimane sospesa nell’aria umida. Si disperde pian piano, al rallentatore. Batto le palpebre. Il mondo è finto, un dipinto senza profondità.

«Andiamo via.»

Il coniglietto sospira. «Va bene, se vuoi ce ne andiamo. Ma prima voglio dirti la verità.» Salta giù dalla spalla. Posa la sigaretta non ancora accesa. «La verità è che la mamma è morta per colpa tua.»

«Cosa…»

«Sai benissimo che è così. È morta perché non sei riuscita a difenderla. Perché sei una vigliacca.»

Le zanne del ragno strappano la carne dalla pancia di mamma. Lei urla. Il sangue picchietta sui cocci. Io sono immobile. Il cuore batte così veloce. Non è colpa mia!

«Se tu non fossi una vigliacca, avresti imparato a controllare la Magia. E la mamma sarebbe ancora viva.»

«Non è vero.»

Mordo il labbro inferiore. La morsa al petto mi stritola, il dolore è insopportabile.

«No? Non è vero? E ti metterai a piangere per dimostrarlo?» Il coniglietto mi sfiora un ginocchio con la zampetta.

«Non toccarmi. Vattene!»

Il Conte riprende la sigaretta. La accende. Dà un tiro e soffia via una nuvoletta grigia. «Sei brava ad alzare la voce con un coniglietto.»

«Tu non capisci. Non puoi capire e basta.»

Non è stata colpa mia. Io ho provato a salvare la mamma. Lo giuro, ci ho provato!

«Non c’è niente da capire, basta annusare.» Il Conte si tocca il nasino con la punta della zampetta. «Quando ti ho trovata, ieri mattina, puzzavi. Puzzavi di urina. Ti sei fatta la pipì addosso mentre la mamma moriva.»

Il visino del coniglietto si scioglie. Il mondo è distorto dalle lacrime. «Perché devi dirmi queste cose? Vai via!»

«Per carità, è naturale. Succede alle persone vigliacche.»

Il cuore rimbomba. Stringo i pugni. Mamma non ha più forze, le braccia penzoloni. Il ragno addenta gli intestini. Il sangue scende a rivoli. Non è vero, non sono una vigliacca. Ho provato, non è colpa mia. Non sono una vigliacca. Non è vero!

«O sbaglio? Dimostrami che sbaglio. Adesso!»

Colpisco con il pugno lo schienale della panchina. Le nocche graffiano la ruggine e attraversano il metallo. Spire di polvere nera mi avvolgono. L’Universo si disgrega.

Dimostrami che sbaglio.

La Magia dura un singolo battito.

Un vortice di forme e colori si innalza dal lago di polvere, il mondo riprende subito consistenza.

Scivolo sulla ghiaia. Non respiro. Ho la bocca spalancata e non entra aria. Grido e non scalfisco il silenzio. Non ci sono suoni. Annaspo. Inspiro e soffoco.

Il coniglietto è rimasto sulla panchina. Mi osserva tranquillo.

Aiutami!

Ti scongiuro, aiutami!

Muovo le labbra, sillabo le parole, c’è solo silenzio.

Il boato mi ferisce le orecchie. Il vento mi inchioda al suolo, disperde i ciottoli intorno a me. L’aria, l’aria è tornata. Riempio i polmoni con avidità.

«Cosa», ci sento, sono tornati anche i suoni, «cosa è successo?»

Il Conte mi guarda dall’alto in basso. Riaccende la sigaretta che si era spenta. «Un piccolo inconveniente dovuto all’inesperienza. Devi stare attenta a non distruggere l’atmosfera intorno a te.»

Oltre la panchina si estende una distesa incolore. Gli alberi, l’erba, le aiuole, lo scivolo per i bambini, la fontanella, la ringhiera, il cartello che segna la fermata degli autobus. Non esistono più. Il palazzo sfuma, i contorni sbiadiscono.

Mi tiro in piedi. Giro su me stessa. Anche gli altri edifici sono scomparsi. E le strade, i lampioni, le auto. La devastazione si estende fin dove arrivo con lo sguardo. L’intero quartiere è stato cancellato.

Ho le vertigini. Ricado seduta sulla panchina.

«Cosa ho fatto» mormoro.

«Per la prima volta ti sei comportata come un vero Mago. Ti sei lasciata guidare dalla rabbia e dall’istinto. Senza remore.»

Le cellette di un alveare. Solo in quel palazzo abitavano centinaia di persone. Sparite. Morte. Le ho uccise io.

«Oggi hai imparato una lezione importante, e possiamo passare alla successiva.» Il coniglietto prende una sigaretta dal pacchetto e me la porge. «Ti insegnerò a fumare.»

Coniglietto cospiratore

 

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Capitolo 11

domenica, dicembre 13th, 2009

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Il lampadario brucia di luce gialla, mi ferisce gli occhi. Il pigiama intriso di sudore mi soffoca. E mamma non la smette un attimo di camminare avanti e indietro fuori della camera. Il battere senza sosta delle pantofole mi dà la nausea.

Mi rigiro nel letto, nella trincea che ho scavato tra le lenzuola. Mi volto verso il comodino, sfioro con le dita umide il quadrante della sveglia. Le quattro e dieci minuti. È la terza notte di fila che non chiudo occhio.

Copro la faccia con il cuscino. Non sono abituata a dormire con la luce accesa, mi dà fastidio, mi sembra di essere rinchiusa in una stanzetta bianca sempre illuminata. Una stanzetta con le pareti imbottite, come quelle dei manicomi nei film. Una stanzetta sorvegliata ventiquattro ore su ventiquattro.

E poi mi gratta dappertutto. Mi prude la nuca, mi prude la schiena tra le scapole, mi prude dietro le ginocchia, mi prude in mezzo alle dita dei piedi. Che strazio! Devo rassegnarmi: dormire imbacuccata con tanto di calze è impossibile in pieno agosto.

Allento il primo bottone della giacca del pigiama.

Non pensare ai tentacoli di tenebra. Non pensare alle ombre.

La luce le terrà lontane.

Non pensarci.

Mi sporgo oltre la sponda del letto per controllare la situazione. Tengo la lampada del comodino sdraiata sul pavimento, in modo che possa scacciare il buio sotto il letto. Inclino il collo di plastica della lampada un po’ più verso destra. I centoventi watt della lampadina investono la tana dell’Uomo Nero. Lì le ombre non potranno più nascondersi.

I passi fuori della porta si fermano. «Silvia, sei ancora sveglia? Va tutto bene?»

«Sì, sì, non ti preoccupare.»

L’andirivieni ricomincia.

Quando mamma mi ha chiesto dell’anello, dovevo rimanere zitta.

Invece sono bastati pochi accenni innocenti per creare un casino.

Mamma mi vuole trascinare dai carabinieri, e se domani non l’accompagno, ci va da sola. Dobbiamo denunciare Roberto. Il bastardo mi ha rapita e violentata. O qualcosa del genere, mi venisse un accidente se lo so. Mamma invece crede di aver capito tutto. Nel suo mondo fantastico ogni particolare combacia: dormo con la luce accesa perché sono terrorizzata dopo il trauma subito; non voglio coinvolgere papà perché mi vergogno a raccontare quello che mi è successo a un uomo.

Spingo più forte il cuscino contro la faccia. Sì, mi vergogno a coinvolgere papà, mi vergogno io per mamma, per quanto è stupida ed egoista. È sempre stata un’egoista. Prima, se le cose non giravano per il verso giusto, era colpa di papà; adesso, se la cara figlia non si comporta da bigotta cretina come lei vorrebbe, è colpa di Roberto che l’ha plagiata. Se non l’avesse cacciato, sono sicura darebbe responsabilità persino al Conte. Sbagliano tutti. Tranne lei. Proprio.

Toc, toc, toc, toc. I tacchi di gomma delle pantofole.

«Mamma, ti prego! Vai a letto, mi dà fastidio che cammini avanti e indietro.»

I passi si allontanano. Il cigolio di una porta. Tintinnio di stoviglie e posate. Rintocchi sul vetro. Acqua che scorre. Gorgoglii. Mamma si sta mettendo a lavare i piatti. Che ha già lavato. Come se così facesse meno baccano.

Scuoto la testa. Mi fa quasi pena quando recita la parte della mamma preoccupata. Crede che ci caschi? Di me non gliene frega niente, lo so, le importano solo le sue fisime.

Mi tiro seduta con la schiena contro la spalliera. Finisco di sbottonare la giacca del pigiama. La sensazione di fresco sulla pelle dura appena un attimo. L’alito di vento che entra dalla finestra è caldo; sembra il fiato tiepido di un cane.

Inutile insistere, anche questa notte non si dorme.

Domani dovrò procurarmi dei sonniferi.

Apro l’anta del comodino. La ciotola della frutta candita è piena di sassi: il risultato dell’ultima lezione di Magia. Potrei esercitarmi un altro po’, magari mi affatico abbastanza per prendere sonno.

Capovolgo la ciotola sul materasso. Dispongo le pietre a semicerchio. Il primo sasso dello schieramento l’ha raccolto in cortile il coniglietto. Ha le dimensioni e la forma di un uovo. Un capo è leggermente schiacciato e una cicatrice attraversa la pancia della pietra. Il colore è grigio cenere punteggiato da grigio più chiaro; i bordi della cicatrice sono marrone. Sotto lo sfregio, un grumo di sabbia bianca si è fuso con il sasso. Faccio scorrere i polpastrelli lungo il profilo del ciottolo. La superficie è irregolare, come la scorza di un mandarino.

Lancio in aria il sasso e lo riprendo al volo.

È un comunissimo sasso.

Che non sono riuscita a replicare.

Gli altri sassi sono i miei tentativi falliti. Il Conte mi ha chiesto di creare una copia del suo sasso usando la Magia. Io ho ottenuto sassi sbilenchi, sassi che somigliano a feti abortiti, sassi troppo gonfi o troppo allungati. E non ho neanche provato a riprodurre la cicatrice o l’incrostazione di sabbia.

Sono negata a modellare con la Magia come sono negata a disegnare. Anche quando ricalco i manga combino pasticci, non ho la mano abbastanza sensibile per seguire bene le curve, e poi la matita mi sfugge sempre.

Il coniglietto si è pure arrabbiato. Quante volte te lo devo ripetere, Silvia? Non devi guardare il sasso. Non devi toccare il sasso. Non devi affidarti ai cinque sensi, un vero Mago non ha bisogno dei sensi! Secondo lui, un vero Mago percepisce direttamente l’informazione alla base della realtà.

Insomma non importa se divento cieca o sorda. O non dormo più.

Questo casino non poteva capitare ad Angela?

Poso il sasso del Conte sul palmo della mano. Se riuscissi in questo esercizio sarebbe meraviglioso, non avrei bisogno di ricattare nessuno, né di scommettere sulle partite: potrei copiare le banconote!

Chiudo gli occhi. Il battito accelera. La realtà vibra e si scioglie in un lago di polvere nera. Il sasso si sfalda in una spirale di minuscoli granelli. Non esiste più, ma l’informazione in grado di generarlo è ancora presente. Non copiare quello che vedi, non copiare quello che tocchi, copia l’informazione, ha spiegato il Conte. L’informazione è scritta sulla superficie dell’Universo.

E dove se no? Scema io a chiedere indicazioni.

Se penso al sasso, increspature turbano la calma del lago di polvere. Forme incerte si contorcono e assumono l’aspetto della pietra. Ma non è il sasso originale, è solo il mio ricordo del sasso.

Stupida Magia!

Riapro gli occhi. Il sasso è scivolato sul fianco. La cicatrice è una bocca socchiusa, il grumo di sabbia un pizzetto: la pietra è una faccia che sogghigna. La scaglio fuori dalla finestra.

Forse mi manca lo stimolo giusto. Apro il cassetto del comodino e ci frugo dentro. Una moneta da cinquanta centesimi è accucciata sotto il fazzoletto.

Meglio che niente, e meglio del sasso.

Sistemo la moneta al centro del palmo. Inspiro. I battiti del cuore si susseguono sempre più rapidi.

Fracasso di piatti che si rovesciano sul pavimento.

Congratulazioni, mamma.

Brava. Davvero, brava. Non facevi abbastanza baccano, vero? Dovevi sfasciare i piatti per essere contenta.

L’eco del frastuono si spegne. Rimane in sottofondo lo scorrere dell’acqua. Nessun altro suono. I passi di mamma? Non si lamenta? Si è sentita male? Sarà tutta una sceneggiata, così riesce a tirar dentro papà anche se io non voglio.

Ributto la moneta nel cassetto e raggiungo in punta di piedi la porta.

Adesso sentirò il raspare della scopa e il tintinnio dei cocci spinti contro la paletta.

Il fruscio dell’acqua. Nessun altro suono.

Socchiudo la porta e mi affaccio sul corridoio.

«Mamma?»

I piatti erano impilati male e saranno caduti da soli mentre mamma era fuori per buttare la pattumiera. Alle quattro di notte?

«Mamma? È successo qualcosa?»

Una lama di luce taglia il buio del corridoio dove si apre il vano della cucina. «Mamma?»

Picchiettio, gocce di pioggia sulle piastrelle. L’acqua deve aver superato il bordo del lavello e ora cola sul pavimento.

Sbuffo. Mi tocca andare a controllare.

 

«Mamma, si può sapere che diamine–»

Rimango immobile sulla soglia della cucina.

Il tavolo è rovesciato sul fianco. Piatti e bicchieri sono in frantumi. Le schegge galleggiano in un lago di acqua sporca e schiuma di detersivo. La stanza puzza di detergente all’arancio.

«Mamma?»

Un mugolio.

Alzo il viso.

Mamma è inchiodata al soffitto, accanto al lampadario. È imprigionata in un intrico di filamenti spugnosi. Un artiglio le trapassa la pancia. Le altre zampe del mostro perforano l’intonaco.

Il ragno di smeraldo è enorme, occupa un intero quarto del soffitto. La testa della creatura è china su mamma. Il sangue scorre dalla ferita allo stomaco e disegna il profilo della zampa. Gocce rosse cadono sui cocci, battono contro il fondo di una pentola.

Mamma spalanca la bocca. Non può urlare, la sostanza spugnosa le riempie la gola. Il ragno ruota la testa verso di me. La mia immagine si riflette deformata negli otto occhi di cristallo, poi la creatura torna a dedicarsi a mamma. Lo scrosciare che viene dal lavello non copre gli altri suoni. Il rumore dei tessuti che si lacerano, delle zanne che affondano nella carne.

Il ragno sta divorando mamma.

Stringo il legno dello stipite. Le unghie si spezzano. Mi tremano le gambe. Non so cosa fare. Il cuore batte veloce. Troppo veloce. Non posso usare la Magia se non mi calmo.

Scintille avvolgono i bracci del lampadario. Le lampadine affievoliscono e si spengono. La stanza piomba nel buio. L’addome gonfio del ragno pulsa di fosforescenza verde.

Mamma geme piano. Il viso terreo, gli occhi sbarrati. Le gocce di sangue sono diventate rivoli. Il rumore della carne strappata mi rimbomba nelle orecchie, è un frastuono che stordisce. Le gambe cedono, cado in ginocchio.

Tengo lo sguardo basso, sull’acqua che si tinge di rosso. Il cuore non rallenta. I battiti si susseguono violenti, si accavallano, non riesco a separarli. Mamma muore e non sono capace di dare inizio alla Magia, non sono capace di fare niente. Niente. Lacrime mi pungono gli occhi.

Il lago di acqua e sangue mi scorre tra le dita. Mamma geme con voce soffocata. Premo i palmi contro le orecchie. Non voglio più sentire, voglio solo che tutto questo finisca.

 Schizzi di sangue caldo mi bagnano le guance. Sollevo il viso. Mamma è caduta dal soffitto. Il corpo è stato tranciato in due all’altezza dello stomaco. Le gambe sono finite dietro il piano rovesciato del tavolo, il tronco è rotolato davanti a me.

Scaglie di vernice piovono sulle spalle di mamma. Il mostro si muove; ogni volta che sposta una zampa, si staccano dal soffitto frammenti di intonaco.

Il ragno raggiunge la parete più lontana. Le due zampe anteriori schiantano le ante della credenza. La creatura scende rasente il muro. Devasta la cassettiera più in basso. Scivola giù dalla parete, si rimette dritta sul pavimento.

Deglutisco. La gola è secca, brucia a ogni respiro. Devo scappare, ma i muscoli sono indolenziti, i tendini rigidi. E gli occhi di mamma mi paralizzano. Dietro i capelli impiastricciati di muco e sangue, le iridi azzurre sono fisse su di me.

Mamma, ci ho provato. Sul serio, ho provato, ho cercato di aiutarti. Ci ho provato! Ma non potevo fare niente. Niente. Niente. Niente.

Le zampe del ragno sbriciolano le piastrelle. Un artiglio d’oro fracassa una sedia. Un secondo artiglio si abbatte sulla testa di mamma; trafigge la tempia e fuoriesce dalla bocca socchiusa, frantumando i denti.

Mamma non mi fissa più.

Sgattaiolo all’indietro, spingendo con i talloni e i gomiti. I cocci dei piatti strappano le calze e mi feriscono i piedi. Il mostro scatta in avanti. Le zampe colpiscono la parete ai lati della porta e sfondano il muro. Incrocio le braccia davanti al viso per proteggermi dai calcinacci. Un tanfo dolciastro mi invade le narici e mi torce lo stomaco.

Il ragno incombe su di me, il muso bavoso a un palmo dalla faccia. Dietro la superficie levigata di smeraldo, ingranaggi d’ombra stridono e ticchettano. Ruote dentate nel collo del ragno compiono un giro completo. La creatura piega la testa di lato. Le fauci si dischiudono.

«Non sei stufa di dover sempre chiedere i soldi a tua mamma?»

La voce è quella di Elena.

«Cosa…» Le lacrime mi velano la vista. «Cosa vuoi da me!»

«Il mio Padrone saprà convincerti» dice la voce di Roberto.

 

* * *

 

L’asciugamano mi bagna le labbra secche, pulisce le guance e la fronte. «Quelli del piano di sopra devono essere in vacanza» sussurra il Conte, accovacciato sulla mia spalla. «Ma presto l’acqua filtrerà attraverso il pavimento. Devi metterti qualcosa addosso e dobbiamo andarcene.»

Le gambe non mi appartengono. Sono sciolte nella melma. L’acqua lurida si è mescolata con il sangue, il detersivo per i piatti, il muco del ragno e il cervello di mamma che cola fuori dal cranio fracassato.

Stringo gli occhi per trattenere le lacrime. Schegge di luce irrompono dalla finestra. La cucina luccica. Migliaia di frammenti e schegge scintillano. Anche il ragno risplende, alla deriva nel liquame. Si è ritrasformato in anello.

«Voglio chiamare papà» mormoro.

Il musino del Conte mi carezza l’incavo del collo. «No, non capirebbe. E metteresti in pericolo anche lui. Andiamo via. È ancora presto, non ci vedrà nessuno uscire.»

«Non sono stata capace di fare niente.»

«Non è stata colpa tua.» Il coniglietto si cala sul pavimento. «Vado in camera a prenderti i vestiti.»

Le gambe di mamma galleggiano contro lo sportello spalancato del frigorifero. Un filo bianco scende dal cartone del latte a lunga conservazione. Il latte gocciola sulle caviglie gonfie, macchia le pantofole.

Mamma è morta per colpa mia.

«Le prime cose che ho trovato.» Il coniglietto molla la presa sulla manica di una maglietta. La distende sulle piastrelle ai margini del lago di poltiglia. «Corro a prenderti anche le scarpe e i pantaloni.»

Sfioro il cotone della maglietta con le dita. Dammela che è da lavare, dice mamma.

Tiro su con il naso. Singhiozzo. Mamma è morta per colpa mia.

 

I gradini delle scale si confondono gli uni negli altri. Mi gira la testa; mi aggrappo al corrimano per non svenire. Affronto uno scalino alla volta, come le vecchie. Quando arrivo al pianterreno, mi appoggio al portone. Ansimo e non riesco a riprendere fiato.

Lasciarmi scivolare a terra. Stringermi le ginocchia al petto e piangere forte. Non desidero altro. Ma non posso farlo. Non qui.

La cabina dell’ascensore traballa. Qualcuno sta scendendo. Come stai ti senti bene è successo qualcosa se hai bisogno basta che lo dici adesso chiamo aiuto se posso fare altro. Le porte della cabina cigolano, io spingo il portone ed esco in cortile.

Il Conte zampetta avanti a me sul sentiero di ghiaia. «Seguimi.»

 

* * *

 

Le pale del ventilatore girano lente. Rivelano e nascondono la ragnatela cresciuta sul soffitto. Un intrico di filamenti grigi. Un intrico che cerco di studiare in ogni dettaglio, anche se mi dà la nausea. Non posso distrarmi. Se mi distraggo rivedo la faccia di mamma; la faccia pallida, la bocca spalancata, i capelli imbrattati di sangue.

Artiglio la coperta azzurra, lacrime scendono lungo le guance.

Un tintinnio alla mia destra. Il Conte ha buttato sul comodino la chiave della stanza. «Qui saremo al sicuro. Per un po’.»

Riprendo a fissare l’intonaco sporco. Il ventilatore ronza, le pale ruotano piano, la ragnatela appare e scompare. Mamma urla, ma non giunge alcun suono, perché i filamenti grigi le hanno invaso la gola.

«Purtroppo non ho trovato molti soldi in casa» continua il coniglietto. «Possiamo permetterci questa fogna di pensione per due, tre giorni, non di più.»

«Voglio chiamare papà.»

Voglio alzarmi in punta di piedi dietro mamma e papà, mentre siamo in fila per entrare al cinema, un giorno di dicembre. Voglio tirare l’impermeabile di mamma e trascinarla dove vendono le bambole di Himiko. Mamma ha promesso che me ne comprava una. Ha promesso di regalarmi Himiko in abito da sposa, come nella scena del ballo a corte. Va bene, allora i biglietti li faccio io, dice papà.

Il Conte balza sul letto, le zampette affondano nella fodera del cuscino. «Adesso devi solo chiudere gli occhi e cercare di dormire. Questa sera ti voglio in forma. Avremo molto da fare.»

«Basta esercizi. Basta Magia.» Mamma fruga nel portamonete, le mancano venti centesimi. Intanto io già cerco di strappare la plastica trasparente che avvolge la bambola. «Non voglio diventare un Mago.»

Il coniglietto recupera il pacchetto di sigarette da sotto la pancia. Prende una sigaretta e la infila in bocca. «Tu sei un Mago. Non soffrire inutilmente. Un Mago non piange, sono i suoi nemici a versare le sue lacrime.»

La punta della sigaretta arde di rosso. Il fumo si alza in spirali che si disperdono intorno al ventilatore. «Roberto continuerà a farti del male finché non accetterai la sua proposta. Vuoi continuare a soffrire?»

«Forse…» Questo però è l’ultimo capriccio, dice mamma. Mi prende per mano e torniamo da papà, che ha raggiunto la biglietteria. «Forse dovevo acconsentire. L’ho fatto arrabbiare. È colpa mia.»

«Strappagli il cuore.» Gli occhietti carbone del coniglietto luccicano. «Strappagli il cuore, se ne ha ancora uno. Chi è morto non può più essere arrabbiato con te.»

La camera puzza di sudore, l’aria è impregnata di polvere. Ogni respiro costa fatica. Vorrei smettere di respirare, smettere di vivere. Vorrei tornare davanti alla biglietteria con mamma e papà.

Una zampetta mi scosta i capelli appiccicati dalla fronte. «Ne riparleremo dopo che ti sarai riposata. Su, chiudi gli occhi e cerca di dormire un pochino. D’accordo?»

Accenno di sì con la testa.

Papà scosta la tenda amaranto. Cerchiamo dei posti vicini, dice mamma. Non troppo davanti. Mentre camminiamo tra le file di poltroncine, si abbassano le luci. Il proiettore frulla, lo schermo si illumina.

Il coniglietto salta giù dal cuscino e si arrampica sul davanzale della finestra. Si aggrappa alla corda della tapparella. Le stecche di legno scricchiolano e si sollevano di una spanna.

«Riposati, io penserò a requisire i soldi che ci servono. Devo anche verificare un indirizzo.» Il Conte dà un lungo tiro, poi getta via la cicca. «Quando sarò tornato, ti insegnerò a uccidere.»

Coniglietto e ragno

 

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Capitolo 10

lunedì, novembre 30th, 2009

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«Prima il mio sogno ricorrente era di perdermi in metropolitana.»

La ragazza con gli occhi verdi ascolta immobile, le dita intorno alla tazzina di caffè. Ormai sarà freddo. Non l’ha neanche assaggiato. Devo farle notare che è maleducazione? Ho perso ore a frugare negli scatoloni per recuperare le tazzine, i cucchiaini, la tovaglia a fiori, lo zucchero, il caffè liofilizzato e i biscotti alle mandorle. Ho persino cucinato: ho aperto il rubinetto dell’acqua calda del lavello in cucina e ho preparato il caffè. Non era cattivo. E poi cosa diavolo pretende? Abita in mezzo al nulla, non ha diritto a fare la schizzinosa.

«Forse volevi un altro cucchiaino di zucchero? Meno zucchero?»

La ragazza batte una volta le palpebre. Sì? No? Valla a capire.

«Dicevo, qualche volta sono sola nei tunnel della metropolitana. Altre volte mi accompagna Elena. O Angela. Vaghiamo nel sottosuolo, al buio, finché non vediamo le luci di qualche stazione. Allora ci affrettiamo, ma…»

Allungo la mano e prendo un biscotto a forma di elefantino dal piatto della ragazza. «Dato che tu non li mangi.» Sgranocchio le zampe dell’elefantino. «Quando ci accorgiamo di essere vicine a una stazione corriamo verso le luci, ma arrivate lì scopriamo che non passa nessun treno. Le luci sono accese, la gente aspetta, ma i treni non passano.»

Ingoio la testa e il corpo dell’elefantino. Per essere rimasti miliardi di anni sul fondo di uno scatolone, i biscotti sono ancora freschi. Profumano come appena sfornati. «Angosciante, non è vero?»

Divoro un altro paio di biscotti. Mi pulisco la bocca con il fazzoletto di carta. Sul fondo della mia tazzina sono rimaste le ultime gocce di caffè. Le bevo con una smorfia. Il caffè freddo fa schifo.

«Non prenderla come un’offesa, ma a volte, quando parlo con te, mi sembra di parlare con una bambola.»

Un movimento lieve. La ragazza annuisce? Forse dondola la testa perché è mezza addormentata. Al solito.

«Se ti sto annoiando, dimmelo, eh?»

Mi lecco le dita sporche di zucchero. Sollevo il viso. L’orologio tondo appeso alla parete segna la mezzanotte. Conta le ore al contrario, dunque è il momento di svegliarsi.

«Ho paura che anche questa notte sia trascorsa. La prossima volta magari preparo la cioccolata?»

La ragazza inclina la testa di lato e socchiude i grandi occhi da cartone animato.

Mi alzo e raggiungo la porticina. Stringo la maniglia. Il risveglio è doloroso, ogni notte. È il prezzo da pagare per uscire dalla casetta.

Spalanco la porta.

Il Sole splende di fronte a me; il disco incandescente riempie il vano. Chino il capo, accecata dalla luce. Spirali di fuoco si staccano dalla superficie della stella, le fiamme mi abbracciano. I vestiti bruciano, le scarpe si fondono con la pelle. La puzza di carne bruciata mi riempie le narici. Non provo dolore, ma sono scossa dai brividi. Mi accascio sull’erba secca che ricopre la collina.

L’erba avvampa. Fumo nero mi entra in gola, tossisco, e non riesco più a respirare. Graffio la porticina della casetta. Non si apre. La maniglia si è sciolta, è una pozza di metallo liquido sullo zerbino.

Gli occhi lacrimano, spingono contro gli zigomi, si gonfiano. Il calore intenso li spappola.

Scende il buio.

 

* * *

 

Il cielo è blu scuro. L’azzurro dell’alba è ancora nascosto dietro i cornicioni dei palazzi. Giro la testa verso il comodino. Le lancette fosforescenti della sveglia si tengono compagnia accanto alle cinque.

Mi siedo sulla sponda del letto e distendo le gambe. Nessuna scottatura. Ogni mattina controllo. Da giorni ho il terrore che quello che succede sulla collina possa filtrare nella realtà.

Mi stiracchio e sbadiglio. Non ho dormito più di tre ore. Un’altra volta. I Maghi non dormono mai, secondo il Conte.

Che razza di fregatura.

L’unico vantaggio di alzarsi all’alba è che mamma non può più accusarmi di essere pigra. Anche se domani non hai scuola, non ti puoi alzare a mezzogiorno. Perché, sentiamo? Non ci sono spiegazioni, ci sono solo fisime cretine.

Cammino a piedi nudi sul pavimento. Dove ho messo le ciabatte?

Mi chino a sbirciare sotto il letto. Mi metto a quattro zampe e allungo una mano nel buio. Cosa ci fai per terra? Non sei più una bambina! E poi tieni in ordine la tua stanza! Anche se mamma non c’è, i suoi rimproveri aleggiano nell’aria. Vivo in una camera infestata dai rimproveri.

Le dita sfiorano il tessuto rosa della ciabatta più vicina. Le maledette sono andate ad accucciarsi nell’angolo più lontano, contro il muro, dove ha la tana l’Uomo Nero. Da bambina ero convinta che lui abitasse proprio lì. Ma quando sono cresciuta abbastanza per spostare rete e materasso, l’Uomo Nero ha traslocato. Non lo ho mai incontrato.

Tendo allo spasimo le dita. Se non mi fossi tagliata le unghie… Niente da fare. Chiudo gli occhi. Un profondo respiro. Mi concentro sul battito cardiaco, aspetto la pulsazione che darà inizio alla Magia. La realtà vibra. Gli oggetti si disgregano in torrenti di polvere, come se un forte vento spazzasse un castello di sabbia.

Ma i muscoli sono già rigidi e ho mal di testa. Mai che riesca a compiere Magie prima di colazione. La polvere nera ricompone il mondo. Premo i palmi contro il pavimento e mi rimetto in piedi. Afferro la spalliera del letto, la tiro verso di me.

L’Uomo Nero è acquattato all’imbocco della tana, gli artigli serrati intorno alle mie ciabatte.

Il corpo della creatura freme e si srotola lungo la parete. L’ombra si contorce, si dibatte dal pavimento al soffitto, incapace di mantenere una forma fissa. Arretro di un passo. Come ha fatto ad arrivare da…

«Lui ti vuole parlare.» La voce dell’ombra è un sibilo che comprendo senza sentirlo; un fruscio al di sotto della soglia di ascolto cosciente.

«Esci subito dalla mia stanza!»

L’ombra si arrampica sul soffitto. Compone un abbozzo di muso, un viso demoniaco con lunghe corna e il lampadario come unico occhio. «Lui ti vuole parlare.»

«Be’, può telefonarmi, il numero lo conosce.»

La creatura cola dal soffitto sulla scrivania, scavalca i quaderni e i libri di scuola, sfiora il monitor del PC, striscia giù seguendo le gambe del tavolo. Tentacoli scuri saettano sulle piastrelle del pavimento. I viticci si protendono verso le dita dei miei piedi. Balzo all’indietro, inciampo nel letto e ci cado sopra di schiena.

L’ombra riforma la faccia. «Lui ti vuole vedere.»

Filamenti sottili quanto un capello nascono dai confini incerti della creatura. I capelli si intersecano gli uni agli altri, con la precisione dei pixel su uno schermo. L’ombra sta tessendo un disegno sulla parete dietro al letto.

Uno spiazzo circolare. Fango. Sabbia. Mozziconi di alberi. Gradini di cemento al centro della spianata. I gradini spariscono nel buio di una galleria. Cavi serpeggiano lungo gli scalini e sono inghiottiti dall’oscurità. Lampade ondeggiano all’ingresso della galleria. Un cartello è attaccato alla parete di roccia, appena all’interno dell’antro. È una mappa della rete metropolitana. Intanto i capelli d’ombra definiscono il paesaggio: edifici sullo sfondo e, intorno allo spiazzo, asfalto, semafori, strisce pedonali, automobili ferme.

Devono essere i lavori di prolungamento della linea 2 della metropolitana. La nuova stazione dalle parti di Garate. Mi ricordo quando hanno cominciato, perché hanno stravolto il percorso della 94. Così sono stata costretta ad alzarmi venti minuti prima per arrivare a scuola in orario.

L’immagine sbiadisce. I capelli si arruffano e modellano una scena diversa: una collina tonda, un ciuffo d’erba su un lato. Nuvole stilizzate ai piedi di uno spicchio di Luna.

In cima alla collina, un animaletto è ritto sulle zampette posteriori. Lunghe orecchie ricadono flaccide ai lati del musino, contratto in una smorfia di disapprovazione.

«Lui non desidera che siano presenti conigli» sibila l’ombra.

I primi raggi del Sole filtrano tra i tetti dei palazzi. L’onda di luce entra dalla finestra, costringe l’ombra a tornare sul soffitto. La creatura rimpicciolisce ed è assorbita dall’intonaco.

Con cautela mi alzo in punta di piedi sul materasso. Il soffitto è pulito, senza alcuna traccia dell’essere. Per sicurezza accendo la lampada sul comodino e le piego il collo verso l’alto.

Lui mi vuole parlare. Mi vuole vedere. Da sola.

Pensa che io sia scema? Dopo quello che ha cercato di farmi. Se abbocco sono una cretina.

Ma adesso conosco la Magia.

Un po’.

Le ciabatte sono ancora lì, nell’angolo. L’unica ombra che le copre è quella della gamba del letto. Chissà per quanto tempo la creatura è rimasta rintanata in agguato, i tentacoli avvinghiati alle mie ciabatte. Dovrò bruciarle.

E mentre dormivo? Al tramonto le ombre acquisiscono consistenza. I tentacoli possono essere risaliti da sotto il letto. Mi sfrego le braccia, e ho timore a guardare le mani: non vorrei che i palmi fossero umidi di muco nero.

Dio, che schifo!

A piedi nudi corro in bagno e mi ficco sotto la doccia.

 

I fori nelle stecche della tapparella bruciano di luce. Mentre mi asciugo i capelli non capisco se sono ancora bagnata o se già sudo per il caldo. Forse sto sudando per la tensione, come in classe prima delle interrogazioni di Storia.

Forse sono nervosa per colpa dell’anello. Sono andata a prenderlo in fondo all’armadio. Lo tengo nascosto dentro uno scrigno di plastica, in mezzo ai mattoncini per le costruzioni, le teste di vecchie bambole, le pedine della dama e le altre cianfrusaglie di quando andavo alle elementari.

L’anello però non è bigiotteria. In penombra l’oro scintilla e lo smeraldo brilla di verde intenso. Non ne capisco granché di gioielli, ma deve valere una fortuna. Per quello non lo metto quasi mai. Se mamma lo scoprisse sarebbe l’ennesimo tormento. Chi te l’ha dato? Perché? Cosa ti è venuto in mente di accettare un regalo così costoso?

Ma saranno affari miei, o no?

Lo smeraldo è incastonato in una culla d’oro. Minuscoli artigli gialli lo tengono in posizione. Zampe. Questa mattina lo smeraldo sembra l’addome gonfio di un ragno e i filamenti d’oro sono piccole zampe.

Glielo restituisco. Non lo sto neanche ad ascoltare, vado lì e, davanti ai suoi occhi, mi sfilo l’anello e lo butto per terra. Voglio vederlo strisciare per raccoglierlo. Così impara.

E se poi me lo restituisce e mi chiede di perdonarlo?

Rigiro l’anello tra pollice e indice. È stato così carino a regalarmelo… Magari non intendeva quello che ha detto, magari si è trattato di un malinteso. Quando ci si trova in situazioni complicate è facile dire o fare cose che non si pensano davvero.

Infilo l’anello e distendo le dita. La pietra preziosa risplende di fuoco verde. È un anello meraviglioso. E quando l’ho fatto vedere ad Angela è schiattata d’invidia.

Se Roberto mi compra l’abbonamento a Internet lo perdono.

 

* * *

 

La gente mi lancia occhiate perplesse, perché sono da dieci minuti impalata davanti alla vetrina del bar sotto la stazione della metropolitana di Porta Pisa. Fisso il televisore appeso sopra il bancone. Mentre passavo ho scorto un’immagine di sfuggita e mi sono bloccata. Scorreva il sommario del telegiornale regionale e sono sicura di non essermi sbagliata: l’immagine era quella di un sacchetto della spesa con le rotelle.

L’inutile vecchia aggredita in casa settimana scorsa è morta; è stato scarcerato l’assessore accusato di corruzione; prosegue la visita dell’ambasciatore del Giappone. In un angolo dello schermo ritorna il sacchetto della spesa. Mi intrufolo nel bar per sentire il servizio.

Il furgoncino bianco si è schiantato contro un tetto. È rimasto incastrato tra le tegole; la fiancata con il sacchetto rivolta al cielo. Il tetto si è deformato, piegato verso il furgoncino. Come un lenzuolo sul quale butti lo zaino pieno di libri. Come lo spazio-tempo deformato dalla massa di una stella, direbbe il Conte.

Mentre il giornalista chiacchiera, i pompieri si aggirano tra i calcinacci. Due poliziotti osservano le lamiere accartocciate. A fianco dell’edificio è parcheggiata un’ambulanza con i lampeggianti blu accesi.

Il giornalista sostiene che non ho ammazzato nessuno, però ci sono alcuni feriti lievi per colpa delle schegge: l’impatto ha frantumato le finestre nell’intero quartiere. E ho sfasciato il negozio di abbigliamento di un cinese. L’ennesimo atto intimidatorio, dichiara un tipo in giacca e cravatta, un pezzo grosso dell’associazione commercianti.

Erba verde ricopre il tetto. Il tribunale ha respinto il ricorso della Santordese. La squadra di San Tordo non potrà iscriversi al campionato di Serie B.

Esco dal bar.

 

Salgo i gradini verso l’uscita della stazione. Intanto mordicchio la stecca degli occhiali da sole.

Potrei farmi pagare.

Non c’è bisogno che faccia del male a nessuno. La mia sarebbe una specie di assicurazione: in cambio di una cifra modesta, fornisco la garanzia che non cadranno altri furgoni. O potrei manipolare i risultati delle partite e scommetterci sopra. Chissà se devo andare allo stadio o posso usare la Magia attraverso la televisione. Non ho mai provato.

Infilo gli occhiali scuri. Devo pensare in grande. Se Roberto vuole che lo prenda di nuovo in considerazione, dovrà promettere ben più dell’abbonamento a Internet!

 

Il becco della ruspa è sollevato a mezz’aria. Incrostazioni di sabbia striano i tozzi denti d’acciaio. Nessuno è seduto al posto di guida. A giudicare dalla polvere sul sedile, sono giorni che la ruspa è lasciata a se stessa.

Gli operai saranno in vacanza. Strano però. Questi lavori di solito non li fermano ad agosto, anzi ne approfittano perché c’è meno traffico. Supero la ruspa e lo spiazzo disegnato dalla creatura di ombra si distende davanti a me. Un circolo di terra smossa grande quanto una piazza. L’imbocco della galleria si apre proprio al centro. Coppie di cavi scorrono sui gradini che conducono all’entrata della caverna. Scendo un paio di scalini e spio all’interno. Buio. Una corda è tesa lungo la volta; a intervalli regolari sono appese delle lampade. Spente.

Appoggio la mano allo stipite di roccia. Mi sporgo in avanti finché l’oscurità gelida non mi pizzica le spalle. Buio pesto.

Là sotto non scendo.

«Non c’è bisogno.»

L’oscurità si gonfia e si protende verso di me. Scatto all’indietro. Tentacoli neri si avvinghiano alle gambe. Scalcio e l’ombra scivola via. Si rintana tra le pieghe del terreno.

Butto gli occhiali da sole. Arretro, attenta a dove metto i piedi, gli occhi puntati sulle crepe che si intersecano nel fango secco. L’ombra fa capolino dagli anfratti, striscia veloce e cerca riparo tra i cavi.

I cavi nascono da un gabbiotto al confine dello spiazzo. Una casupola con le pareti di lamiera e una singola finestrella. «Seguimi» sibila l’ombra. Zampette nere sbucano dalla creatura. L’ombra corre sotto i cavi, come un millepiedi a testa in giù.

Raggiungo il gabbiotto. L’ombra si insinua nello spiraglio tra le pareti di alluminio e il terreno. Scompare all’interno. Io ho bisogno di una porta. Giro intorno alla casupola.

La porta è bloccata da un divano di tela rossa, addossato contro la lamiera. Roberto siede in un angolo, il capo chino, gli avambracci poggiati sulle cosce. È dimagrito. Molto. La pelle è tirata, le ossa delle braccia e delle dita sono in rilievo. Le vertebre spuntano sotto la maglietta bianca.

«Ciao, Silvia.»

«Cosa ti è successo?»

Alza il viso. Gli occhi sono due cavità vuote.

«Sono stanco di avere un corpo di carne. Questa sarà l’ultima volta.»

Sorride. Non ha più le labbra, i denti sono quelli di un teschio.

Copro l’anulare della sinistra con l’altra mano, per nascondere lo smeraldo. Mi è già passata la voglia di fare una scenata.

Lui si tira in piedi, reggendosi alla spalliera del divano. Allarga le braccia. «Vieni qui, dai.»

Indietreggio. Dietro Roberto si annidano le ombre. Decine di creature pigiate le uno contro le altre, che fremono e sibilano.

«Forse è meglio se non ci vediamo più» balbetto.

Roberto scuote piano la testa e ho paura che il collo sottile si spezzi. «Il mio Padrone non ha gradito come ti sei comportata. Sei stata molto scortese ad andartene così, senza salutare.»

«Be’, avevo fretta.»

«Ma è disposto a mettere da parte la propria collera. È ancora pronto ad accoglierti. Il mondo degli uomini è condannato, tu hai una possibilità di salvarti. Non sprecarla.»

«Il mondo non è condannato. Posso fermare gli invasori.»

Roberto snuda i denti, sogghigna. «Come farai?»

«Il Conte mi sta insegnando.»

«E tu stai imparando? Non credo.»

L’ombra accucciata sulle mie ciabatte. Chissà da quanti giorni mi sorvegliava.

«Te lo dico una volta sola, se trovo un’altra creatura schifosa in camera mia, ti giuro che–»

«Non fidarti del coniglio. Prova a chiedergli come passava il tempo prima di incontrare te. Chiedigli chi era.»

«Prima mi cercava. Così ha detto.»

Roberto ciondola il capo. Annuisce? Nega? «Il mio Padrone è un umile cercatore di verità. Lui non ha secondi fini, non nasconde segreti. Dagli la possibilità di aiutarti.»

Sono uscita con ragazzi che avevano dei problemi e ne ho ricavato solo rogne. Roberto sarà almeno una settimana che non mangia e non voglio sapere con quale porcheria si è fatto. Senza contare le persone che frequenta. Che non sono neanche persone.

«Non penso di poter accettare.»

Lui si rimette seduto. Batte una mano scheletrica sul tessuto sfilacciato del divano. «Quando deciderai di accomodarti accanto a me, io sarò qui ad aspettarti.»

«Non cambierò idea.»

«Il mio Padrone saprà convincerti.»

Il disco del Sole si dilata. Il bianco mi abbaglia e devo proteggermi il volto con il dorso della mano.

Le scarpe scivolano sulla sabbia e cado con il sedere per terra.

Un rombo meccanico scuote il mondo. Ombre mi avvolgono. Abbasso la mano, stringo gli occhi. Sopra di me si erge il becco della ruspa. Rivoli di terriccio sfuggono ai denti e mi piovono addosso. Tossisco e sputo. Cerco di rialzarmi, i palmi affondano nella sabbia. Sono finita in una buca.

«Ti sei fatta male?»

Un tizio a torso nudo con in testa un casco giallo mi offre la mano. Non è solo, lo spiazzo si è riempito di gente. Due operai portano in spalla un tubo di cemento; un gruppetto impila mattonelle; qualcuno spala palta grigia. Altri sono fermi e mi guardano.

Stringo la mano sudaticcia del tizio e mi tiro fuori dalla buca. Il cigolio di una porta che si apre. Dal gabbiotto sbucano due uomini. «E questa chi cazzo è?» chiede quello con la camicia a scacchi al tipo accanto.

«Scusate, mi sono persa» mormoro.

Poi scappo via.

 

* * *

 

La mamma mi aspetta seduta al tavolo della cucina.

Per carità, non oggi! Devo ignorarla. Un bel respiro profondo e tirare dritto. Non guardarla, tirare dritto, fare come se non ci fosse.

Sono alla porta della camera, quando la voce di mamma mi raggiunge. «Non hai niente da dirmi?»

Giro la maniglia. «No!»

Ma la porta non si apre. Provo con entrambe le mani. Niente.

«Ho chiuso a chiave. Vieni qui e parliamone.»

Cristo!

Strascicando i piedi arrivo in cucina. «Mamma, ti scongiuro, non oggi. Ti prego

«Dove sei stata?»

Sospiro e mi lascio scivolare su una delle sedie di plastica nera. «Ho fatto una passeggiata.»

«Hai i capelli sporchi di sabbia. Anche le braccia.»

«Sono caduta. Ma non mi sono fatta niente.»

«Da quanti giorni vai a letto tardi e ti alzi alle cinque del mattino?»

Ma Santo Cielo! Non posso più neppure dormire poco?

«Non lo so. Un po’ di giorni. Fa caldo e non ho molto sonno.»

Mamma stringe qualcosa tra le dita. Qualcosa che scricchiola. Lo depone sul tavolo: è un pacchetto di sigarette accartocciato. Quello che ieri notte si è fumato il Conte. Con la storia dell’ombra mi sono scordata di farlo sparire.

«E non sono più solo sigarette, vero?»

Devo stare zitta. È l’unica soluzione.

«Ho telefonato a tuo padre. Non ti vede da settimane. Chi ti dà i soldi?»

Granelli di sabbia sporcano le piastrelle intorno alla sedia. Cerco di contarli. Non devo muovere un muscolo o ne cadono altri.

Mamma si alza. Esce dalla cucina. Un colpo secco. Dev’essere il chiavistello della porta di ingresso. Rumore di una chiave che gira nella serratura.

Mamma rientra. Rimane in piedi. Tiene in mano un mazzo di chiavi. «Se vuoi rimanere su quella sedia in eterno, fai pure. Se vuoi uscire di casa o nasconderti in camera tua, prima devi darmi delle risposte.»

Non ci credo. Così da stronza non si era mai comportata. Chi si crede di essere? È lì impalata con ancora addosso la vestaglia, e non si è neanche pettinata. E quello, vicino alla tempia, non è un capello bianco? Sta diventando una vecchia sciatta e stupida. Ogni giorno che passa più stupida. Se davvero sapesse…

Stai calma, stai calma, tanto è inutile. E di casini da sistemare ne hai già abbastanza.

«Non possiamo proprio parlarne un altro giorno? Hai visto anche tu che mi sono alzata prestissimo. Sono stanca. Ti prego.»

«Quale altro giorno, Silvia?» Mamma afferra la spalliera di una sedia. Le dita stridono sulla plastica. «Quale altro giorno? Quando saranno finite le vacanze e dovrò tornare in ufficio? A cena mi dirai che va tutto bene e io ci crederò, perché sarò distrutta e con ancora i lavori di casa da fare.»

È cominciata la lagna, un film noioso che conosco a memoria: chiacchiere sull’aiuto reciproco, sulle responsabilità in famiglia, sulle scelte importanti. Fuffa che ha copiato da qualche rivista idiota. Papà ha fatto benissimo ad andarsene a gambe levate.

«… non sei più una bambina piccola. Hai un’età che…»

Riprendo a contare i granelli di sabbia. Sono arrivata a cinquantuno. Un po’ di sabbia si è anche infilata tra l’anello e il dito. L’anello! Mi sono dimenticata di togliermelo!

Se mamma se ne accorge… ma in fondo, cosa me ne frega? Il giorno stesso che compio diciotto anni sono fuori di casa. Sempre che non crepi prima.

Scosto la sedia e mi alzo. «Vuoi sapere la verità?»

«… è anche responsabilità tua fare in modo… come?»

«Vuoi sapere cosa ho fatto stamattina? Stamattina avevo un appuntamento con un uomo.»

Mamma sgrana gli occhi. Io sorrido. «Mi ha proposto di andare a vivere da lui. Una cosa a tre con lui e il suo padrone.»

«Silvia, cosa stai–»

«Non ti sto prendendo in giro. Guarda, mi aveva anche regalato un anello.» Sfilo il gioiello e lo lancio a mamma. Lei lo prende al volo e lascia cadere sul tavolo le chiavi.

«Ma ho rifiutato.» Stacco dal portachiavi la chiave della mia camera. «Non tanto per lui, ma per gli amici che frequenta. Non mi piacciono proprio.»

 

Chiudo la porta della stanza e mi appoggio con la schiena al battente. Tiro un sospiro di sollievo. Se sono fortunata, mamma rimarrà sotto shock almeno un paio di giorni. Poi mi inventerò che Roberto mi molestava o altre balle del genere, così divento la vittima che ha bisogno di comprensione – sarebbe anche vero.

Un’ombra si allunga da dietro il monitor del PC. Mi stacco dalla porta. Un musino grigio spunta a fianco dello schermo. Una sigaretta pende dalle labbra del coniglietto.

«Non ti avevo detto di lasciare sempre la tapparella un po’ sollevata? Sono dovuto passare per il balcone e c’è mancato poco che tua madre mi scoprisse.»

«Scusa. È che mi stavo vestendo e–»

«Devo ripetertelo per l’ennesima volta? Non siamo a scuola. Non c’è un premio per l’impegno. Non sono tollerabili gli errori. Niente errori e niente scuse. Non devi sbagliare e basta.»

Siamo ancora incazzati per lo scherzetto con la gravità di ieri sera, o sbaglio?

Mi stringo nelle spalle. «Va bene, va bene, starò più attenta.»

Il coniglietto accende la sigaretta. «Piuttosto, si può sapere dove sei stata?»

Coniglietto in coppa

 

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Capitolo 9

giovedì, novembre 12th, 2009

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I freni del tram stridono, il mezzo si ferma con uno scossone, le porte a soffietto si aprono. Una vecchietta si affaccia sul predellino; dita rachitiche stringono la sbarra verticale di metallo in mezzo ai due scalini. Mentre la vecchietta si arrampica, scatta il rosso all’incrocio. Elena ne approfitta per chinarsi a raccogliere lo zaino. Abbassa la cerniera di una tasca laterale e ci fruga dentro finché non trova il pacchetto di sigarette. Ne prende una e accenna a infilarsela in bocca.

«Guardi, signorina, che non si può fumare in vettura» dice una signora seduta davanti a noi, scandendo bene l’ultima parola. Un’altra stupida, inutile vecchia. Il 37 è il tram che fa capolinea al Cimitero di San Gagliano ed è sempre pieno di cose decrepite. Cose goffe, puzzolenti, cretine.

Un giorno mi ridurrò anch’io così? No, non merito un destino del genere.

Elena rigira la sigaretta tra indice e pollice. «Non sto fumando, non vedi?» Sorride ironica. «Perché non ti compri un paio di occhiali, eh?»

Le rughe intorno agli occhi della vecchia si contraggono; arretra la testa contro lo schienale del sedile, quasi Elena l’avesse presa a schiaffi. Tipico dei vecchi sentirsi offesi per un nonnulla.

Un relitto è seduto a fianco della signora. Forse è il marito. Spelacchiato, smunto, la testa macchiata da chiazze marroni, come se si fosse rovesciato addosso il caffelatte; stringe allo spasimo il pomo del bastone da passeggio.

Sorrido anch’io. Hai qualcosa da dire, nonno? Cosa vuoi fare con quel bastone, sentiamo? Devi solo provarci ad alzare le mani. Dopo l’interrogazione di inglese ho proprio voglia di sfogarmi con qualcuno e se credi che mi trattenga perché sei un vecchio, hai scelto la giornata sbagliata.

La signora sfiora la spalla dell’uomo. Lui si rilassa sotto la giacca troppo grande. Il colletto della camicia è sporco e ingiallito, i polsini sono unti. Che schifo di persona.

I freni stridono. Il tram si ferma. La coppia di vecchi si alza a fatica e arranca verso l’uscita dietro di noi. Quando la signora passa accanto a Elena, la mia amica le mostra la sigaretta. «Hai visto adesso? Non sto fumando.»

Ci sediamo sui sedili di legno lasciati liberi dai due.

«Vecchi idioti» dice Elena. Cerca l’accendino nello zaino. Non lo trova e comincia a tastare le tasche del cappotto.

«Quante fermate mancano?» le chiedo.

«Una o due. Non lo ricordo di preciso, ma è la prossima dopo che passiamo il palazzo in costruzione.»

Ha recuperato l’accendino. Lancia uno sguardo verso la cabina del tram. «Dici che il conducente riesce a vedermi?» Sembra decidere di sì, perché tira indietro la testa e rimette l’accendino in tasca. «Hai già pensato a come spendere i soldi? Se finiamo in fretta possiamo passare in centro, lunedì hanno finito i lavori di ristrutturazione al centro commerciale.»

«Ma pagheranno di nuovo anche te? Non hai già fatto il test?»

«L’ho già fatto due volte. Questa sarebbe la terza. In certi casi devono ripetere l’esperimento per essere sicuri.»

«Sicuri di cosa?»

«Sicuri di quello che vogliono essere sicuri.» Elena allarga le braccia. «Certo che oggi sei proprio una lagna. Non sei stufa di dover sempre chiedere i soldi a tua mamma?»

Infatti quando posso li chiedo a papà, che non fa mai tante storie. Mamma ha questa politica assurda: ti do i soldi, ma devi dirmi cosa intendi farne. Mi servono per la scuola, no? E non ci crede. È proprio deficiente se pensa che vada a raccontarle quello che faccio.

La condensa appanna i vetri del finestrino. Pulisco un angolo per spiare fuori. Stiamo percorrendo la sopraelevata che scavalca i binari della stazione di Porta Augusta. Le coppie di binari si perdono all’orizzonte, spariscono nella nebbia. Nessun treno è in arrivo o in partenza. Una carrozza è abbandonata sul binario più a sinistra; erbacce soffocano la vettura, sotto il verde marcio c’è solo ruggine.

Il tram rallenta mentre scende il cavalcavia. Un paio di palazzoni con le facciate scrostate lasciano spazio a una rete metallica, alta diversi metri. Dietro la rete montagnole di terra, cataste di tubi di cemento, pile di mattoni. Un camion ha il pianale inclinato e rovescia una cascata di pietrisco in un fossato. Sullo sfondo, gru arancioni attorniano lo scheletro di un grattacielo.

Premo l’indice contro il vetro. «È questo il palazzo in costruzione?»

Elena gira la testa. «Sì, ci siamo quasi.»

 

Il vento ci aggredisce. Incasso la testa nelle spalle e mi metto dietro a Elena. Sono intirizzita. Avrei dovuto mettermi la sciarpa, anche se è aprile. Acceleriamo il passo e attraversiamo la piazza. Ci infiliamo in una stradina. Nel vicolo i vecchi edifici arginano le ondate di aria gelida.

«La chiesa è più avanti.» Elena allunga il braccio.

«Certo che è strano che facciano questi esperimenti in una chiesa.»

«Non è più una vera chiesa. È sconsacrata, è colpa dei satanisti o qualcosa del genere.»

La stradina diviene così stretta che anche se volessi non potrei affiancare Elena. Un frusciare di ali mi fa alzare il viso. Corvi attraversano la striscia di cielo grigio e si posano sui cornicioni dei tetti. Gli uccelli neri piegano i becchi verso di noi e lanciano versi striduli.

Bestiacce.

La chiesa si confonde con le case accanto, non fosse per un piccolo crocefisso di rame appeso sopra la porta. Elena picchia il batacchio a forma di testa di leone contro il legno. Due colpi. Al terzo scatta la serratura e la porta si socchiude.

Scendiamo i gradini di ferro di una scala a chiocciola. Sbuchiamo in un corridoio illuminato da luci al neon. Quando raggiungiamo lo sportello dell’accettazione, Elena mi fa cenno di fermarmi. Dietro il vetro è seduto un impiegato dall’aria sonnolenta, una mano a reggere il mento.

«Siamo qui per i test» dice la mia amica.

«Dovete compilare i moduli.» Il tizio sposta appena la testa, a indicare una pila di carta su una panca. «Avete una penna?»

Elena apre lo zaino e prende il suo modulo. Io faccio altrettanto. «Li abbiamo già preparati.»

L’impiegato solleva un sopracciglio. «La sala d’aspetto è in fondo al corridoio.»

 

Seggiole pieghevoli di plastica circondano un tavolino. Un termosifone elettrico ronza contro la parete. Ci togliamo i cappotti e ci sediamo. Sul tavolino sono sparse riviste di medicina. Sfoglio Gastroenterologia Oggi. Mi blocco a pagina cinque, davanti a un fegato pieno di cicatrici e noduli giallastri. “I rischi della cirrosi” è il titolo dell’articolo. Il rischio è di vomitare il panino salsa rosa che ho mangiato uscita da scuola. E c’è gente che paga per leggere porcherie del genere.

«Dovremo aspettare tanto?» chiedo a Elena.

Lei mugugna qualcosa che potrebbe essere sì, no, forse. È alle prese con il cellulare, ma non sembra esserci campo qui sotto, come se fossimo scese in una caverna.

Il soffitto a volta è molto basso. È stato imbiancato di recente. Un lavoro fatto da schifo, tanto che in alcuni punti si notano ancora i vecchi mattoni. L’umidità gonfia l’intonaco delle pareti. Il pavimento è di pietra. Una volta ho visto in TV una specie di documentario sui satanisti che rubavano le ossa dai sotterranei delle chiese. Perché c’era l’abitudine di seppellire i morti sotto le chiese.

Chissà se c’erano dei corpi qui, dove siamo sedute.

E i satanisti hanno disturbato i morti.

Sfioro il calorifero. Il metallo è bollente, ma in questo antro si gela.

Scalpiccio. Tacchi sulla pietra. Una dottoressa in camice bianco entra nella saletta. Elena si alza per salutarla.

La dottoressa le sorride. «Elena, giusto?»

Elena annuisce. Mi indica. «Lei è Silvia, sa la mia amica? La volta scorsa mi aveva chiesto se…»

«Ah, certo.» La tipa mi offre la mano. La stretta è lieve, umida, viscida.

«Qui ci sono i nostri moduli» dice Elena. La dottoressa non li degna di uno sguardo. «Hai spiegato alla tua amica come funziona?»

«Sì.»

«Vado a prendere le siringhe con l’agente di contrasto.»

«Cos’è un agente di contrasto?» sussurro a Elena, mentre la dottoressa sparisce nel corridoio.

«La roba che ti iniettano, ma non senti niente, te l’ho già spiegato. Rilassati.»

 

È stata un’infermiera a fare l’iniezione, mentre la dottoressa scarabocchiava sul retro del mio modulo. Ho sentito un lieve pizzicore, poi l’infermiera ha buttato via la siringa vuota.

Adesso sono seduta in una piccola stanza, una celletta scavata nella roccia. Sul ripiano davanti a me sono disposti un mazzo di carte e una telecamera, puntata verso il mio viso. Mi hanno attaccato alle tempie due elettrodi. I fili scendono sotto il tavolo e sono inghiottiti dalla parete, proprio sotto lo specchio. Che ho il sospetto sia come quello dei film: dietro lo specchio c’è gente che ti spia. Vorrei girarmi per controllare che la porticina dietro di me sia ancora aperta – non l’ho sentita chiudersi –, ma ho paura di tirare i fili.

«Puoi cominciare» dichiara una voce. La voce viene da un altoparlante montato sul soffitto.

Prendo la prima carta. È plastificata, un po’ più grande e spessa delle carte che usa la nonna per giocare a ramino. Il dorso è blu chiaro. La volto: un cerchio nero su fondo bianco.

Studio la carta e conto fino a dieci. La voce tace. Devo metterci più impegno? Esamino il disegno geometrico per qualche altro secondo.

«Va bene così?»

«Prendi un’altra carta» acconsente la voce.

Giro la seconda carta. Cerchio nero su fondo bianco.

La terza carta è identica alle prime due. Che sia un mazzo di carte tutte uguali? Ha senso?

Tengo la mano sul mazzo, il palmo premuto sul dorso della carta in cima alla pila, le dita distese. Volto la carta di scatto: ancora cerchio nero su fondo bianco.

Il polso comincia a farmi male, come l’anno scorso, quando mi ero messa in mente di imparare a giocare a tennis. La quinta carta la prendo con la sinistra. Le dita mi mandano una fitta quando le piego.

Respiro sempre più in fretta. Il tanfo del fegato sfigurato dalla cirrosi impregna la stanza. Mi viene vomito. Cosa mi sta succedendo?

«Non…» Ho un capogiro. «Non mi sento bene.»

La trama di pietre del pavimento pulsa, sempre più vicina. Il cuore mi martella in petto. Afferro il bordo del tavolo. Il mazzo di carte frana. Le carte si spandono a terra.

Cerchio nero su fondo bianco.

 

* * *

 

Il Conte sporge il musino da sopra la mia testa. Alzo gli occhi e incontro i suoi. «Hai smesso di contare» dice il coniglietto. «Come ti senti? Ce la fai a parlare?»

Ho la gola secca e non so cosa significhi “parlare”. Socchiudo la bocca. Un filo di saliva mi cola dalle labbra.

Parlare.

Mugolo. Emetto un lamento, il verso di un animale ferito.

Parlare? Come si fa a parlare?

Il coniglietto ritrae il musino.

Tintinnio metallico contro l’osso del cranio. Gli aghi sfregano il bordo del buco. Un lampo dietro gli occhi.

«Cosa… eh? Sì, sì, parlo. Credo.»

«Avevi smesso per quasi un minuto.»

«Ho rivissuto un ricordo. Ma era prima. Prima che ti incontrassi.»

«Quanto prima?»

«Aprile.»

Le zampette del Conte ballano sulla mia fronte. Altri aghi scintillano ai limiti del mio campo visivo. «Forse ci siamo» dice il coniglietto. «Riprendi a contare.»

«Uno… Due… Tre… Quattro…»

 

La spada descrive un arco con la velocità del fulmine. Dietro la lama rimane una scia palpitante di energia magica. Sulle squame che coprono il collo del demone si disegna un tratto netto, nero di sangue.

Volto pagina e nella vignetta successiva la testa cornuta del mostro piomba nella polvere. La principessa Himiko stringe l’impugnatura della spada con entrambe le mani. Punta l’arma contro la nuca della bestia; la cala verticale e trafigge il terzo occhio del demone. Il mostro urla. Dalle fauci spalancate strisciano via le anime dei prodi guerrieri uccisi nei capitoli precedenti.

Noia.

Minimo adesso resuscita anche il monaco Obudan, e se c’è un personaggio antipatico è lui. Apro la mano, il manga scivola via tra le dita e mi cade sulla faccia. Scrollo la testa e il volumetto scivola giù dal viso. Una macchia grigia incorona il corpo di Himiko, dove la carta ha toccato la mia fronte sudata.

L’afa è atroce. Finestra aperta e tapparella alzata: non arriva un filo d’aria. Sotto di me il lenzuolo è fradicio. Sono sdraiata, immobile, e sono in un bagno di sudore. Riprendo il manga, lo agito davanti alla faccia, come fosse un ventaglio. La sveglia sul comodino pigola. Piego la testa. Mezzanotte in punto.

La porta della camera si apre. Mamma entra, senza bussare.

«Non è il caso che spegni la luce e ti metti a dormire?»

Mi hai tolto Internet. Non mi lasci andare in vacanza. Hai buttato il Conte in strada. Non è il caso di farti almeno gli affari tuoi?

Mostro la copertina del manga a mamma. «Non posso più neanche leggere adesso?»

«Stai sicura che i soldi per comprare certe stupidate non li vedi più. Non devi leggere niente per scuola? Non hai compiti per le vacanze?»

Mi giro verso il muro e le do le spalle.

«Rispondi, Silvia!»

Altrimenti?

Sfoglio la pagina successiva del fumetto, la faccio frusciare apposta perché si senta il rumore. Le dita sudate lasciano aloni grigi sulle zone nere dei disegni. Giro un’altra pagina. Sbadiglio.

Un tonfo. Mamma è uscita e ha sbattuto la porta.

«Non si sbattono le porte» urlo.

Un secondo tonfo: mamma si è ritirata in camera sua. Scendo dal letto, in punta di piedi raggiungo la porta e spio in corridoio. Buio. Un riquadro giallo circonda il battente della stanza di mamma. Due minuti dopo si spegne anche quella luce.

Rientro in camera, prendo la lampada dal comodino, la accendo e la metto sul davanzale della finestra. Inclino la testa della lampada verso il basso. Illumino un circolo di erba rinsecchita in giardino.

Mi siedo sulla sponda del letto; sbadiglio di nuovo, questa volta senza farlo apposta. Speriamo che lui si sbrighi, o me ne vado a nanna sul serio. Tasto il copriletto dietro di me, a cercare il manga.

 

All’ultima pagina, il raspare sul cemento mi fa alzare la testa. Il Conte è balzato sul davanzale, una sigaretta tra le labbra. «Non hai idea di quanto sia difficile trovare un tabaccaio aperto la sera ad agosto.»

Unisce le zampette a coppa intorno all’accendino e una fiamma rossa accende la punta della sigaretta. Inspira a fondo. «Hai preparato il latte? E la frutta candita?»

Sbuffo. «Sì, sì, è tutto pronto.» Apro l’anta del comodino e tiro fuori il termos, poi scoperchio una ciotola che ho chiuso con la carta stagnola. La ciotola è piena di pezzettini di frutta candita.

Il coniglietto finisce di fumare. Spegne la cicca contro il davanzale e la butta di sotto. Salta sul letto. Fruga con una zampetta tra i bocconcini dolci. «Non c’era solo albicocca? Non mi piacciono ananas e banana.» Sgranocchia una fetta di albicocca incrostata di zucchero.

«C’era solo la confezione mista. Ringrazia che sono riuscita a prenderla, ormai mamma è insopportabile, mi controlla persino i centesimi.»

Il Conte annuisce. Svita il termos ed estrae il biberon. Beve un sorso di latte; rovista nella ciotola e si caccia in bocca gli altri pezzetti di albicocca. Si pulisce il pelo con il copriletto. «Come va?»

Come vuoi che vada?

Roberto è in piedi sulla piattaforma, sfocato nel ricordo. Le fiamme lambiscono i pilastri. Fumo rovente rende l’aria irrespirabile, l’onda di calore che si sprigiona dall’incendio mi costringe ad arretrare. Tra il fuoco spuntano zanne di acciaio, lunghe quanto il mio braccio.

Scuoto la testa.

«Ho smesso di piangere, se è questo che intendi.»

«Era ora. Hai fatto gli esercizi che ti ho assegnato?»

«Forse.»

«Silvia, sono stufo di ripeterti sempre le stesse co–» Gli occhietti carbone del Conte si dilatano. L’espressione sul musino passa dalla consueta disapprovazione allo stupore. Il coniglietto agita le zampette verso la ciotola, sfiora il bordo, la rovescia, non riesce ad aggrapparsi.

Sta volando.

Filamenti traslucidi convergono verso un punto in mezzo alla stanza, dove ho creato una sfera di massa enorme, ma delle dimensioni di un coriandolo.

Il Conte galleggia verso la sfera. Dietro di lui si solleva il copriletto, come fosse il lenzuolo di un fantasma. La ciotola si ribalta e sparge nell’aria frammenti di frutta candita, che rimangono in sospensione. Crepe corrono lungo il soffitto. Scaglie di intonaco si staccano dalle pareti. Il lampadario piega il lungo collo, catturato dal campo gravitazionale della sfera.

Ho un pochino esagerato.

Dissolvo il coriandolo, lo trasformo in polvere nera. Il Conte cade, ma prima che tocchi il letto, creo accanto a lui una nuova sfera. La sposto fino all’angolo opposto della stanza, il coniglietto al traino.

Guido dita invisibili alla libreria. Sfilo una manciata di CD. Le confezioni vorticano intorno a me, scelgo quella con in primo piano l’immagine di un’orchestra sinfonica. Per l’occasione ci vuole musica classica.

«Puoi anche mettermi giù!» strilla il coniglietto, premuto contro il soffitto.

La confezione di plastica distende le ali. Il CD rotola fuori. Lo prendo in mano e lo infilo nello stereo. Non voglio rischiare di sfasciare qualcosa schiacciando i tasti con la gravità.

La musica avvolge la stanza. Abbasso un pochino il volume per non svegliare mamma. Rivolgo un breve inchino alla platea che non esiste. «Lo spettacolo ha inizio!» annuncio.

Muovo le mani, con gesti ampi e decisi, imitando un direttore d’orchestra. Lancio il coniglietto verso la parete, lo fermo prima che si spiaccichi; lo faccio levitare fino al lampadario. Al suono dei violini, gira intorno alle quattro lampadine disposte a rombo. Sempre più veloce!

Lo lascio andare. Lo riprendo a meno di un centimetro dal pavimento.

Il coniglietto annaspa, come se potesse nuotare nell’aria. Il pelo gli ha coperto gli occhietti. «Mettimi giù! Mettimi giù subito

Lo porto davanti a me.

«Sai? Avevi ragione. Riesco a vedere la gravità.»

«Questa me la paghi» ringhia la bestiola.

Mentre la musica si attenua, conduco il coniglietto alla finestra aperta. «Non vuoi fare un giretto fuori?»

«No!»

Lo riporto al letto, facendolo volare a testa in giù.

«Ti credevo più avventuroso.»

Lo adagio sul cuscino. Il Conte cerca subito di rimettersi dritto, ma non è saldo sulle zampette. Si accascia sul fianco. «Mi gira la testa. Mi viene nausea. Ho bisogno di una sigaretta.»

Per una volta sono io a fissarlo con una smorfia di disapprovazione. «È colpa tua.» Gli agito l’indice davanti al musino. «Non dovresti volare subito dopo cena.»

Il coniglietto si trascina fino al pacchetto di sigarette. Con zampette tremanti si porta una sigaretta alla bocca. «Questa me la paghi» ripete.

Lo prendo in braccio. Gli carezzo il pelo arruffato, gli liscio le lunghe orecchie. «Cosa ne dici? A me sembra di aver imparato.»

Il coniglietto tossisce. Ha l’aria di chi stia per vomitare anche l’anima, ma tiene duro. Inspira una boccata di fumo. «Vedremo se hai imparato.»

 

Il Conte si è ripreso in fretta. Ha mangiato i rimasugli di frutta candita e si è scolato il latte. Siede sul davanzale, fuma e scruta la Luna. Il disco color argento domina il cielo.

«Così pensi di aver imparato a controllare la gravità.» Spegne la sigaretta contro lo stipite della finestra. «Io dico che imbranata come sei hai solo imparato a dar fastidio ai coniglietti.»

«Io dico che ti dà solo fastidio perché non puoi rimproverarmi come al solito.»

«Vieni qui e verifichiamo subito.»

Mi affaccio alla finestra. Il coniglietto indica la strada con una zampetta. «Lo vedi quel furgoncino bianco?»

Il furgoncino è parcheggiato sotto un lampione; sul fianco del mezzo è dipinto un sacchetto della spesa sorridente. Con le rotelle. Dev’essere il furgoncino per la consegna a domicilio di qualche supermercato.

Accenno di sì con la testa.

«Mandalo sulla Luna.»

«Stai scherzando?»

«Hai sentito. Spediscilo sulla Luna. Se hai davvero padronanza della gravità non dovrebbe essere un problema. Tormentare me, lanciare nello spazio un furgoncino o far collassare una stella sono operazioni identiche, è solo questione di attenzione e controllo.»

«Non sarà pericoloso?»

Il coniglietto soffia via un alito di fumo. «In effetti trasformare le stelle in buchi neri richiede una certa prudenza. Non dovrebbero esserci grossi rischi con il furgoncino.»

«Ok. Ci provo.»

Ombre si incrociano sopra il sorridente sacchetto della spesa, mentre sale oltre il cono di luce del lampione. L’intero furgoncino è adesso una macchia scura nel cielo nero. La forma indistinta si sovrappone al profilo della Luna. Il puntamento è giusto. Manca solo una delicata spinta.

«La soluzione più semplice è che deformi lo spazio-tempo fino a far combaciare Luna e furgoncino» spiega il Conte. «Come ti ho insegnato l’altro giorno con gli origami e gli elastici.»

E io facevo solo finta di ascoltarti. Ma credo di ricordare abbastanza.

Inspiro a fondo. Al successivo battito del mio cuore la realtà si sgretola in un oceano di polvere nera. Turbini di polvere si concentrano in un singolo punto. La gravità inizia ad alterare lo spazio-tempo. Luna e furgoncino sono agli estremi di una corda, e io la sto tirando nel mezzo, per spingere i due capi a toccarsi.

Il furgoncino vibra. Il parabrezza esplode in una nube di schegge.

Calma. Non devo avere fretta o lo disintegro.

Lunghi respiri.

Ho il battito accelerato. Non riesco a mantenere stabile la nuova struttura dello spazio-tempo. La polvere si disperde di continuo e torna spontaneamente ad aggregarsi, ricrea una realtà che io voglio diversa.

Lo voglio!

Il cielo avvampa di bianco. Il Sole sorge e tramonta. Spettri invadono il paesaggio. Personaggi eterei riempiono i marciapiedi. Camminano attraverso i muri delle case. Alcuni sono sospesi a mezz’aria. Di altri spunta dall’asfalto solo la testa. I fantasmi si lasciano dietro una scia formata da copie di loro stessi. I palazzi si disgregano e tornano a essere materiali da costruzione. Gli alberi rimpiccioliscono e sono assorbiti nel terreno.

Non perdere il controllo, non adesso!

Ma mi sono distratta.

Gli spettri evaporano.

Il furgoncino piomba a terra. L’onda d’urto scuote i vetri della finestra. Uno sbuffo di fumo grigio si alza all’orizzonte. La sirena di un’ambulanza urla, sempre più vicina. Si svegliano gli antifurto delle macchine. Nel palazzo di fronte si accendono le luci; un tizio in canottiera si sporge dal balcone.

Indietreggio di un passo, le ginocchia non mi reggono, mi accascio sul letto. I suoni giungono attutiti. Sfioro l’orecchio e il sangue scorre sulle dita. Cerco a tentoni il fazzoletto sul comodino. La mano trema.

Lo raccoglie il Conte e me lo passa.

«Non ci siamo.»

«Lo so.» Aiutandomi con i gomiti mi rimetto seduta. Mi pulisco le orecchie. «È come con le altre Magie. Finché sono giochetti semplici non ho problemi, ma appena…» Il fazzoletto si è tutto sporcato di sangue. Altre rogne con mamma se lo scopre. «Ma appena provo con qualcosa di più complesso…»

«Credo di sapere perché succede.»

Sollevo il viso. «Perché?»

«Perché non sei come gli altri Maghi.» Il coniglietto mi sale sulle ginocchia. «Se ci fosse stato qualcuno dentro il furgoncino, avresti provato lo stesso a lanciarlo sulla Luna?»

«Che razza di domanda, no.»

Il Conte si arrampica in spalla. «È questo il problema. Il problema è che in fondo sei una brava persona. Ma un Mago non può mettere niente al di sopra della propria volontà. Non devi frenare i tuoi desideri, non ci devono essere differenze tra quello che desideri e la realtà. Questo è il potere di un vero Mago.»

«Non sono sicura di aver capito.»

«Per modellare la realtà a tuo piacimento devi essere disposta a distruggerla. Un vero Mago non considera mai le conseguenze, perché nessuna conseguenza ha senso rispetto alla sua volontà. Un Mago è l’incarnazione dell’istinto di sopravvivenza dell’intero Universo. Un Mago è la tempesta, il bruciare di una stella, la nascita e la morte delle galassie. Un Mago non ragiona, non calcola, non riflette. Un mago desidera!»

Gli occhietti del coniglietto luccicano. Ma ancora non è che il concetto mi sia proprio chiaro. «Io non desidero uccidere nessuno. Be’, sì, qualcuno sì, ma non riuscirei mai a farlo a sangue freddo. E comunque non capisco perché non possa imparare a usare la Magia senza far del male. Anche se ho delle difficoltà, ho già imparato molto.»

«No, Silvia, non stai imparando. Non stai imparando un bel niente! Dannazione!»

Il Conte balza giù e acchiappa il pacchetto di sigarette. «Qualche stupido giochetto da prestigiatore.» Batte il pacchetto contro il palmo della zampetta, ne esce solo polvere di tabacco. «Ecco tutto quello che hai imparato!» Stringe più forte il pacchetto, il cartoncino scricchiola. Il Conte tira il pacchetto contro il calorifero.

«Stai sfiorando l’acqua con la punta delle dita, invece di immergerti. Hai troppa paura delle conseguenze.»

«Non lo faccio apposta.»

Il coniglietto salta sul davanzale. Gli angoli della boccuccia sono piegati all’ingiù. Non disapprovazione, tristezza. «Hai diritto ad aver paura. E avresti diritto a un destino migliore. Per oggi la lezione è finita, vado a cercare un altro tabaccaio aperto.»

Coniglietti affamati

 

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