Capitolo 12
domenica, gennaio 24th, 2010
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Il ghiaccio incrosta il telaio della finestra. La neve copre il davanzale. Dietro i vetri, i fiocchi scendono lenti. Una coltre bianca avvolge la collina.
Soffio sulla tazza di cioccolata. Non fa freddo nella casetta, ma tenere le mani intorno alla porcellana calda è lo stesso piacevole. Il tepore che risale dalle dita è delizioso. Anche il profumo della cioccolata non è male. Accosto le labbra alla tazza e assaggio con la punta della lingua. Dolce al punto giusto. Forse un po’ troppo liquida, ci vorrebbe la panna montata per compensare.
Sulla cioccolata ci vorrebbe sempre la panna montata!
Torno a sedermi al tavolo. «Non abbiamo la panna, vero?»
La ragazza, seduta di fronte a me, si stringe nelle spalle. E ti pareva. È casa sua e non ha idea di quello che contengono gli scatoloni. Il cacao, lo zucchero e la farina li ho dovuti cercare io, rovistando dentro uno scatolone dopo l’altro. Ho impiegato tutto il pomeriggio.
Va bene, rinunciamo alla panna. Per fortuna ho trovato le cialde. Ne immergo una a forma di sigaro nella tazza. Mangio la cialda in due bocconi. Non male, non male davvero, solo un pizzico di farina in più e ci siamo.
«La cioccolata non è venuta male, non vuoi almeno assaggiarla?»
La ragazza piega la testa di lato. Socchiude gli occhi verdi. Il fumo caldo che sale dalla sua tazza le ha arrossato le guance. «La cioccolata è buona» dichiara.
Lo dice solo per farmi contenta, lo so. Sospiro e intingo un altro biscotto.
Sgranocchio la cialda. L’enorme ragno smeraldo si sovrappone ai disegni floreali della tovaglia. L’immagine del mostro mi è rimasta impressa negli occhi. Sono sveglia da ore e il sogno è sempre vivido. È stato un incubo terrificante. E non vuole andar via, non vuole sparire dalla mente.
Le zampe del ragno si arrampicano sulla superficie della tazza. Strisciano lungo la porcellana, sinuose come ombre. Scatto all’indietro, i gommini sotto le gambe della sedia stridono. Il ragno si ritrae, sguscia sotto il tavolo.
La ragazza non muove un muscolo, indifferente.
«Devi aiutarmi» dico. «Tu sai quello che sta succedendo, ti prego dimmelo. Non voglio più soffrire come ieri notte.»
«Non credo di poterti aiutare.» L’espressione della ragazza è mogia. «Non senza la parola chiave che hai scelto tu.»
«Ma io non la so! Non la ricordo. Dannazione, aiutami! Ti prego!»
La ragazza si china. Raccoglie dal pavimento la confezione del cacao in polvere. Appiattisce la scatola, quindi strappa il cartoncino; una linea frastagliata taglia in orizzontale le parole “cacao in polvere”.
«Questo è quello che so.» La ragazza solleva la mano destra, dove tiene la metà della scatola con la parte superiore della scritta. «E questa è la parola chiave.» Solleva la sinistra, che regge l’altra metà della scatola.
Fa combaciare i due pezzi e la scritta si ricompone. «Solo con la parola chiave posso aiutarti.»
Non sono sicura di aver capito. «Ma questa parola chiave quanto è lunga? Posso indovinarla? Quante lettere sono?»
«Dieci alla ventidue.»
«Dieci alla…»
La ragazza annuisce. «È un numero grandissimo.» Allarga le braccia. Esita. Le allarga ancora di più, come ad abbracciare l’intera stanza. «È un uno seguito da ventidue zeri.»
«Mi stai prendendo in giro?» Sto per dare una manata alla tazza e rovesciare la cioccolata, ma ho schifo a toccare dove si sono posate le zampe del ragno. «Come posso ricordare una parola chiave del genere? Come posso pronunciarla?»
«Sei tu che hai scelto la parola chiave.»
Le lancette dell’orologio appeso alla parete raggiungono la mezzanotte. Il vento scuote la finestra. I fiocchi di neve picchiettano contro il vetro. Mezzanotte. È ora di tornare. È ora di dormire e sognare.
Mi aspettano nuovi incubi. Non è giusto!
La porta dietro di me scricchiola. Il vento urla più forte. Spifferi gelidi si intrufolano da sotto il battente e mi pizzicano le caviglie.
«Senti, posso rimanere qui? Solo per questa notte?»
«Fai pure.»
La ragazza tira su il cappuccio. L’ombra nasconde i capelli dorati, copre i grandi occhi da cartone animato. Il respiro si spegne. La ragazza è immobile.
La porta sbatacchia. Spruzzi di neve spargono tracce bianche sul pavimento. Adesso la casetta è gelida. Scalcio la sedia e indietreggio verso gli scatoloni, le braccia strette al petto.
Il vento ruggisce, la neve martella la finestra. Crepe solcano i vetri. Frammenti di intonaco si staccano intorno al telaio. Qualcosa di pesante si scaglia contro la porta. I cardini schizzano via, il battente divelto piomba a terra. Il boato riverbera nella stanza.
La testa mostruosa del ragno si affaccia all’interno. Gli otto lucidi occhi di cristallo esplorano l’ambiente. La bestia allunga una delle zampe. L’artiglio colpisce le assi del pavimento e scava nel legno. Il ragno fa forza sulla zampa per trascinarsi dentro. I fianchi di smeraldo raschiano la vernice dagli stipiti; un’altra zampa scatta in avanti e uncina le assi.
Respiro sempre più in fretta. L’aria si condensa davanti alla bocca. Le dita sono ghiacciate, i piedi non si vogliono muovere. Sono paralizzata. Non anche qui. Non quando sono sveglia. No!
Il ragno arretra e riparte all’assalto. Le pareti della casetta tremano. L’intelaiatura della porta cede. I mattoni si sbriciolano. Il mostro entra sotto una pioggia di calcinacci.
Gli ingranaggi d’ombra ticchettano.
«Il mio Padrone saprà convincerti.»
* * *
«Come stai?» Il coniglietto è chino su di me. Gli occhietti neri si confondono con il pelo. La camera è buia. «Ti ho preso un succo di frutta. Su, bevi.»
Mi offre la cannuccia. Socchiudo le labbra screpolate. Il coniglietto inclina il cartoccio del succo. Gocce al sapore di pesca mi bagnano la lingua.
Il ventilatore non ha smesso di ronzare. La ragnatela è scomparsa nell’oscurità, ma io so che è ancora lì. E il ragno è marchiato a fuoco nelle retine. Sogno e realtà sono orribili allo stesso modo. Non esiste via di fuga.
«Ce la fai ad alzarti?»
Spingo con i gomiti e mi metto seduta sulla sponda del letto. Il Conte mi lascia il succo di frutta e salta sul comodino. Accende la lampada. «Hai dormito più di dodici ore. Sono le dieci di sera passate.»
Acqua sporca. Puzza di detersivo. Piastrelle frantumate. Mamma e papà in fila per entrare al cinema. Papà. Papà sarà a casa. Lo immagino seduto in soggiorno, i gomiti sul tavolo, la testa tra le mani. «Devo avvertire papà. Devo dirgli che sto bene.»
Il Conte ha recuperato da sotto la pancia un pacchetto di sigarette. Ne estrae una e la porta alle labbra. «Ci ho pensato io.»
«Ci hai pensato…»
Ci sarà la polizia a casa? Magari papà sta male. Dovrei essere con lui. E lui dovrebbe stare con me perché io mi sento malissimo. Il succo di frutta mi sfugge di mano, rotola sulle ginocchia, cade sulla moquette.
Il coniglietto unisce le zampette a coppa. La fiamma dell’accendino brilla di rosso intenso. «Non ti preoccupare. Ho sistemato io. Fidati.» La punta della sigaretta brucia. Volute di fumo grigio nascondono il musino del Conte.
Non fidarti del coniglio. Prova a chiedergli come passava il tempo prima di incontrare te. Chiedigli chi era.
«Chi sei? Chi sei veramente?»
Il Conte posa la cicca sul bordo del posacenere. Granelli di cenere si adagiano sul disegno di una casetta tra i monti. «Io sono solo un coniglietto parlante.»
Le mie dita stringono il tessuto dei jeans. «Rivoglio indietro la mamma. Subito. Se sono il Mago che dici, posso farlo.»
«Ci sono limiti al potere di un Mago. Neanche un Mago può ricostruire l’informazione alla base di una coscienza. Non c’è alcun modo per riportare indietro la mamma.»
«Capisco.» Le unghie spezzate graffiano il cotone. «Io ho il potere di salvare l’Universo, ma non posso salvare la mamma. E tu sei solo un coniglietto.» Tiro su col naso. «Non è vero. Sei un bugiardo, sei solo un bugiardo!»
«Quando una creatura dotata di coscienza muore, le informazioni che la definiscono come essere individuale sono perse per sempre.» Il coniglietto salta giù a raccogliere la cannuccia. Fa cadere una goccia di liquido arancione sul palmo di una zampetta. «Immagina che ogni coscienza sia una goccia. Quando moriamo, la goccia si unisce al mare. Non la si può più separare dalle altre. Neanche un Mago può farlo.»
Serro le labbra. Mamma ha la bocca spalancata. Urla in silenzio. Il sangue scorre dalla ferita allo stomaco. Non hai fatto niente per aiutarmi. Niente. Mi hai lasciata morire. Non vuoi aiutarmi neanche adesso!
«Puoi modellare una nuova persona che somigli alla mamma. Avrà il suo aspetto fisico e i suoi ricordi, ma non sarà lei.»
Il Conte riprende la sigaretta. Dà lunghi tiri. Il fumo vela la luce della lampada. «Non lasciare che la morte della mamma sia stata invano. Non soffocare la rabbia. Non avere paura dei tuoi sentimenti.»
«Io non so cosa provo. Sto male.»
«Vedrai che presto ti sentirai meglio.»
Il coniglietto spegne la sigaretta sulla porticina della baita. «Finora ti ho insegnato come usare la Magia per modificare la realtà. Ma la Magia può essere usata anche per distruggere. È la Magia più difficile e potente che un Mago possa compiere.»
* * *
Le ginocchia molli non mi reggono. Crollo sulla moquette. Non distinguo più niente, il mondo è rosso sangue. La testa mi martella. Ogni giuntura del corpo è sul punto di spezzarsi. Tengo la bocca socchiusa, se i denti si sfiorano tra loro, si sbriciolano.
«La prima volta è sempre molto dura.» Il coniglietto è una macchia indistinta. La macchia asciuga il sudore che mi bagna il viso con un lembo del lenzuolo. «Ma sei stata bravissima.»
Batto le palpebre. Metto a fuoco il ventilatore. Sono sdraiata supina per terra. La schiena rigida, pronta a rompersi al minimo movimento. «Ho bisogno», biascico, la gola è in fiamme, «ho bisogno di riposare per qualche minuto.»
«Prenditi tutto il tempo che ti serve.» Il coniglietto si ritrae. Il tonfo attutito delle zampette sul comodino; il fruscio della plastica attorno al pacchetto di sigarette. Dita di fumo strisciano verso le pale del ventilatore.
Calmo i respiri.
Nessuna Magia era stata tanto dolorosa. Mille mani mi hanno afferrata e trascinata sott’acqua. Non potevo riaffiorare, per quanto mi agitassi. Ho spinto e scalciato. Le ossa scricchiolavano. Sono scesa sempre più in profondità. La pressione mi ha schiacciata. L’acqua si è tinta di rosso.
Giro la testa verso il comodino. Il posacenere non esiste più. Al suo posto è rimasta una impronta nell’aria. Un intreccio di linee che sbiadiscono lentamente.
Il coniglietto passa la zampetta attraverso il fantasma del posacenere. «Non è sparito del tutto perché è ancora nei nostri ricordi.» Le linee si accorciano. Rimpiccioliscono a ogni battito di ciglia. «Per fortuna gli altri osservatori della stanza non hanno memoria.»
Mi puntello con un gomito e sollevo la testa. Il collo manda una fitta. «Quali altri osservatori? Chi c’è con noi?»
«Il comodino, la cannuccia, la lampada, il letto.» Il Conte rigira la sigaretta tra le zampette. «Questa sigaretta, l’accendino e ogni altro oggetto. Ogni oggetto contribuisce a rendere concreta la realtà. Ma gli osservatori che non hanno memoria sono molto più propensi ad accettare un cambiamento radicale.»
Riappoggio la nuca alla moquette. «Non ho capito.»
«La realtà è fluida. Appare concreta grazie al continuo accordo tra gli osservatori. Per esempio ci aspettiamo che le leggi della fisica siano immutabili, e per questa ragione lo sono.»
«Ho sete.»
«Per questo distruggere la realtà è la Magia più difficile. Perché nessun altro osservatore è disposto a negare l’esistenza della realtà stessa. Nessuno tranne il Mago.»
Il coniglietto zampetta fino alla finestra. Balza sul davanzale, torna con un cartoccio di succo di frutta. «Bevi.»
Questa volta è albicocca. Preferivo la pesca.
«Ti sei mai chiesta perché è così faticosa una Magia cosciente rispetto a una Magia involontaria?»
Mi pulisco la bocca con il dorso della mano. «No. Non lo so.»
«Una Magia involontaria porta in superficie un accordo già esistente. Una Magia cosciente deve imporre la volontà del Mago. È come scegliere un quadro da una galleria d’arte invece di dipingerlo da zero.»
Le parole del Conte hanno uno strano eco. Le ho già sentite. Le ha già pronunciate in passato. Ti sei mai chiesta perché ho l’aspetto di un coniglietto?
«Ti sei mai chiesta perché sono un coniglietto?»
«Forse.»
«Perché già miliardi di osservatori concordavano sulla mia esistenza. Io sono protagonista di favole, romanzi, cartoni animati. I coniglietti parlanti sono ovunque, appena al di sotto della soglia per esistere.» Il Conte osserva la punta della sigaretta. La carta brucia e annerisce. «Tu mi hai fatto superare la soglia.»
«Chi sei veramente?»
Due tiri e il coniglietto finisce la sigaretta. Butta via la cicca. «Bevi un altro po’ di succo, poi riprenderemo gli esercizi.»
Chiudo gli occhi.
«Sono stanca. E sono esercizi inutili. Per uccidere con la Magia non ho bisogno di annientare la realtà.»
«Ne avrai bisogno per uccidere le ombre.»
* * *
Le lunghe e sottili zampe del ragno cercano i punti più adatti dove far presa tra la ghiaia. L’insetto scavalca un sassolino e passa davanti alla punta della scarpa. Sollevo il piede e lo schiaccio.
Il sudore scende lungo le guance e il collo, mi pizzica la nuca. Le nuvole nascondono il Sole, ma l’afa è lo stesso atroce. Non spira un alito di vento. Il fumo della sigaretta è un filo grigio senza interruzioni.
Il coniglietto spegne la sigaretta contro il ferro della panchina e mi sale in spalla. «Hai capito quale finestra? Puoi anche farlo da qui.»
Il palazzo di sei piani vibra nel caldo, sembra un miraggio. La facciata bianca sfuma nel cielo color latte. Le finestre e i balconi si susseguono a breve distanza. Gli appartamenti devono essere monolocali. Le cellette di un alveare.
L’autobus parcheggiato davanti ai giardinetti riparte. Una nube si solleva dalla strada polverosa e vela i primi due piani del palazzo. Da una delle finestre arriva il mormorio di una radio.
«Sei sicuro che la dottoressa abiti qui?»
«Il balcone con i vasi, quasi all’angolo. Abita nell’appartamento di sopra. E non è più un medico da anni, è stata radiata dall’ordine.»
Scorro le cellette. Individuo i vasi di plastica nera e i fiori appassiti. Alzo lo sguardo. Le finestre dell’appartamento di sopra sono chiuse, le tapparelle abbassate. La dottoressa starà ancora dormendo. Vado a prendere le siringhe con l’agente di contrasto. È stata lei a farmi le iniezioni nel sotterraneo della chiesa.
«Vive da sola?»
Il coniglietto batte il fondo del pacchetto di sigarette contro la spalliera della panchina. Sfila una nuova sigaretta. «Sì.»
«Non credo di riuscirci.»
«Sai perché è stata radiata? Si faceva pagare cifre astronomiche dai malati di leucemia. Per curarli con il bicarbonato.» Il coniglietto dà un tiro. «Questa è una delle persone che hanno ucciso la mamma.»
Il volto di mamma che urla. Le sue mani insanguinate si chiudono sull’artiglio che le squarcia lo stomaco. Le dita scivolano sul sangue. Non mi hai aiutata! Mi hai lasciata morire!
Una morsa mi stringe il petto.
Non vuoi aiutarmi neanche adesso!
«Però la dottoressa… lei non è un’ombra»
«Non ha importanza, è lo stesso responsabile. Ha scelto lei di servire le ombre. Non merita pietà, e tu non meriti di continuare a soffrire.»
Ma il dolore al petto non si attenua al pensiero di usare la Magia. Non voglio usare la Magia. Non voglio uccidere. Non voglio niente. Voglio solo smettere di soffocare. «Oggi. Oggi non ci riesco. Andiamo via.»
«No, Silvia, devi farlo adesso.»
Un secondo autobus rallenta e si accosta alla fermata. Non sale e non scende nessuno. Il mezzo riparte. L’onda di polvere rimane sospesa nell’aria umida. Si disperde pian piano, al rallentatore. Batto le palpebre. Il mondo è finto, un dipinto senza profondità.
«Andiamo via.»
Il coniglietto sospira. «Va bene, se vuoi ce ne andiamo. Ma prima voglio dirti la verità.» Salta giù dalla spalla. Posa la sigaretta non ancora accesa. «La verità è che la mamma è morta per colpa tua.»
«Cosa…»
«Sai benissimo che è così. È morta perché non sei riuscita a difenderla. Perché sei una vigliacca.»
Le zanne del ragno strappano la carne dalla pancia di mamma. Lei urla. Il sangue picchietta sui cocci. Io sono immobile. Il cuore batte così veloce. Non è colpa mia!
«Se tu non fossi una vigliacca, avresti imparato a controllare la Magia. E la mamma sarebbe ancora viva.»
«Non è vero.»
Mordo il labbro inferiore. La morsa al petto mi stritola, il dolore è insopportabile.
«No? Non è vero? E ti metterai a piangere per dimostrarlo?» Il coniglietto mi sfiora un ginocchio con la zampetta.
«Non toccarmi. Vattene!»
Il Conte riprende la sigaretta. La accende. Dà un tiro e soffia via una nuvoletta grigia. «Sei brava ad alzare la voce con un coniglietto.»
«Tu non capisci. Non puoi capire e basta.»
Non è stata colpa mia. Io ho provato a salvare la mamma. Lo giuro, ci ho provato!
«Non c’è niente da capire, basta annusare.» Il Conte si tocca il nasino con la punta della zampetta. «Quando ti ho trovata, ieri mattina, puzzavi. Puzzavi di urina. Ti sei fatta la pipì addosso mentre la mamma moriva.»
Il visino del coniglietto si scioglie. Il mondo è distorto dalle lacrime. «Perché devi dirmi queste cose? Vai via!»
«Per carità, è naturale. Succede alle persone vigliacche.»
Il cuore rimbomba. Stringo i pugni. Mamma non ha più forze, le braccia penzoloni. Il ragno addenta gli intestini. Il sangue scende a rivoli. Non è vero, non sono una vigliacca. Ho provato, non è colpa mia. Non sono una vigliacca. Non è vero!
«O sbaglio? Dimostrami che sbaglio. Adesso!»
Colpisco con il pugno lo schienale della panchina. Le nocche graffiano la ruggine e attraversano il metallo. Spire di polvere nera mi avvolgono. L’Universo si disgrega.
Dimostrami che sbaglio.
La Magia dura un singolo battito.
Un vortice di forme e colori si innalza dal lago di polvere, il mondo riprende subito consistenza.
Scivolo sulla ghiaia. Non respiro. Ho la bocca spalancata e non entra aria. Grido e non scalfisco il silenzio. Non ci sono suoni. Annaspo. Inspiro e soffoco.
Il coniglietto è rimasto sulla panchina. Mi osserva tranquillo.
Aiutami!
Ti scongiuro, aiutami!
Muovo le labbra, sillabo le parole, c’è solo silenzio.
Il boato mi ferisce le orecchie. Il vento mi inchioda al suolo, disperde i ciottoli intorno a me. L’aria, l’aria è tornata. Riempio i polmoni con avidità.
«Cosa», ci sento, sono tornati anche i suoni, «cosa è successo?»
Il Conte mi guarda dall’alto in basso. Riaccende la sigaretta che si era spenta. «Un piccolo inconveniente dovuto all’inesperienza. Devi stare attenta a non distruggere l’atmosfera intorno a te.»
Oltre la panchina si estende una distesa incolore. Gli alberi, l’erba, le aiuole, lo scivolo per i bambini, la fontanella, la ringhiera, il cartello che segna la fermata degli autobus. Non esistono più. Il palazzo sfuma, i contorni sbiadiscono.
Mi tiro in piedi. Giro su me stessa. Anche gli altri edifici sono scomparsi. E le strade, i lampioni, le auto. La devastazione si estende fin dove arrivo con lo sguardo. L’intero quartiere è stato cancellato.
Ho le vertigini. Ricado seduta sulla panchina.
«Cosa ho fatto» mormoro.
«Per la prima volta ti sei comportata come un vero Mago. Ti sei lasciata guidare dalla rabbia e dall’istinto. Senza remore.»
Le cellette di un alveare. Solo in quel palazzo abitavano centinaia di persone. Sparite. Morte. Le ho uccise io.
«Oggi hai imparato una lezione importante, e possiamo passare alla successiva.» Il coniglietto prende una sigaretta dal pacchetto e me la porge. «Ti insegnerò a fumare.»
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